Il nuovo film

La violenza dei social e quella delle banlieue. Parla Cantet

Giuseppe Fantasia

"Possono distruggerti e anche in poco tempo. Nelle periferie il sentimento comune è dominato dalla rabbia", ci dice il regista francese, a Roma per presentare il suo ultimo lavoro che racconta l’ascesa, la gloria e la caduta di un giovane scrittore militante ai tempi delle piattaforme digitali

Laurent Cantet sta alla Francia come Ken Loach all’Inghilterra. A unirli è il loro lavoro da registi, ma soprattutto quella voglia di raccontare senza moralismi - seppur con stili differenti – le condizioni di vita dei meno abbienti e degli emarginati della società, interrogandosi sul ruolo che possono avere le reti sociali nella nostra vita, soprattutto in quella dei giovanissimi, che in questa continua e odierna confusione sono i primi a cercare di avere risposte rapide e facili che poi, a ben vedere, non sempre arrivano. Succede anche in Arthur Rambo, il nuovo film che Cantet - Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2008 con La classe - è venuto a presentare a Roma, tra i super ospiti della dodicesisima edizione di Rendez-Vous, il Festival del Nuovo Cinema Francese. Al centro dello stesso - in uscita nelle sale il 28 aprile prossimo per Kitchen Film – c’è l’ascesa, la gloria e la caduta di un giovane scrittore militante ai tempi dei social, “una storia vera – spiega al Foglio il regista – che ho deciso di far interpretare a Rabah Nait Oufella che era un adolescente quando recitò nel film La classe”. Il suo vero nome è Karim D, viene dalla banlieue, è il simbolo della Francia multiculturale e icona dell’antirazzismo, ma finisce presto in un tritacarne mediatico quando qualcuno riesuma vecchi tweet antisemiti, omofobi e misogini che ha postato tempo prima con lo pseudonimo di Arthur Rambo.

 

“Quel nome è un gioco di parole – continua Cantet – ed è perfetto per fornire il ritratto di un ragazzo intelligente, ma dominato da una profonda inquietudine, un nome che volutamente fa pensare ad Arthur Rimbaud, un uomo che fu dilaniato dalla sua doppia vita. Da un lato fu un grande autore della poesia francese, dall’altro – e questo sono in pochi a saperlo – era un trafficante di schiavi, protagonista del triangolo della morte Marsiglia-Gibuti-Buenos Aires”.

 

A ispirare Cantet è stato un caso simile che in Francia fece molto scalpore, quello che coinvolse Mehdi Meklat, una maniera, la sua, per affrontare la questione dell'identità dimostrando quanto possano essere violenti i meccanismi dei social. “I social sono utili – ci dice – non li condanno, ma vanno utilizzati conoscendone i meccanismi, perché possono distruggerti e anche in poco tempo, come racconto nel film che ho volutamente ambientato nell’arco di 48 ore proprio per evidenziare l’accelerazione dei meccanismi di comunicazione. Oggi tutti sono disposti a tutto pur di farsi notare e si cerca spesso la popolarità attraverso la provocazione, ma altrettanto spesso si finisce col togliere significato alle parole e dare solo un’illusione di libertà”. Anche il suo protagonista è un provocatore e per farlo si crea una nuova identità, “tra il fascino del poeta e la brutalità di Rambo”, diventando un simbolo per i più giovani della periferia parigina, che in lui vogliono continuare a credere. Uno come Cantet la banlieue la conosce molto bene, perché – ci spiega – “la abito da oltre 25 anni”.

“Nel posto dove vivo, dietro la porte de Bagnolet, quelli della mia età come quelli delle generazioni successive, vivono un mondo che è ben lontano da quello di questi ragazzi così giovani, il cui sentimento comune è dominato dalla rabbia”.

“La rabbia è il motore che spinge oggi i giovani a comportarsi come non dovrebbero, ad essere violenti e a disprezzare ogni forma di diversità. È un motore che uccide i sentimenti e annienta i sogni”. Perché lo fanno? Gli chiediamo. “Perché non sono desiderati dalla società, perché vengono sempre guardati con una certa diffidenza, anche se dovessero fare qualcosa di buono, e poi perché sono sempre sotto il giudizio di qualcuno: della famiglia, degli amici, del web, come accade nel film. Molti di loro sono figli di immigrati, di persone che hanno sofferto ancora di più perché per poter essere accettati da quella stessa società, hanno deciso di fare lavori che tutti gli altri non volevano fare, ma così facendo sono diventati invisibili. Da qui la rabbia - che ovviamente non giustifico, ma comprendo - assieme a questa sempre più frequente scomparsa di ideologie. La guerra in corso ne è l’estrema conseguenza e non potrà che portare a un rifiuto delle ideologie e a un disprezzo totale della politica, oggi purtroppo vissuta sempre di più in prima persona”.

 

Una soluzione? “So che sarò banale, ma è la cultura la migliore risposta a tutti questi problemi. Bisogna studiare, riflettere, pensare, cercare di creare e dare il proprio punto di vista, comprendere, ragionare ancora. Nel mio piccolo, lo faccio con i miei film e quelli che vado a vedere da spettatore devono trasmettermi tutto questo, devono lasciarmi un lavoro mentale da fare subito dopo che poi si trasforma nella voglia di agire e di reagire. So che è faticoso, ma così, almeno per me, tutto ha più senso”.

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