Il regista Paolo Sorrentino

"È stata la mano di Dio". E di Paolo Sorrentino

Gianmaria Tammaro

Il nuovo film del regista che sarà distribuito da Netflix è un ritorno a casa, a Napoli, ma da maturo. La pellicola forse più intima

Una volta Paolo Sorrentino ha detto che dall’origine, dalle radici, “non ci si libera per nessun motivo al mondo”. Le radici restano, sono importanti, le radici, come diceva la Santa de “La Grande Bellezza”, fanno bene. E la malinconia dei ricordi, di quello che è stato e che non sarà più, è una medicina che lenisce e non guarisce, che tormenta, che promette, che allunga una mano come consolazione ma che non offre nessuna vera soluzione. Con Napoli, che è la sua origine e le sue radici, Sorrentino ha sempre avuto un rapporto particolare e appassionato: è nei suoi film, in quello che scrive, nel modo in cui parla, nella sua ironia sottile e nella sua fede calcistica.

  

Sorrentino è napoletano nei fatti e nelle parole; è napoletano nell’indolenza dell’espressione, nella lentezza con cui s’esprime, nella curiosità affascinata che dimostra. A Napoli ha girato il suo primo film, “L’uomo in più”, e in quelle immagini e in quella storia c’è tutta l’essenza di ciò che gli piace dire e raccontare, di quello che adora mettere in scena: c’è il talento – della voce e del piede – e c’è il potere; ci sono il successo e la sua promessa luminosa, e c’è l’angolo nero di chi non riesce, di chi viene costretto a non fare, e che per questo soffre.

  

Napoli, per Sorrentino, è una presenza costante. In “Hanno tutti ragione”, quando Tony Pagoda, il protagonista, ricorda la sua infanzia, e la sogna e si rivede mano nella mano con i suoi genitori, c’è un po’ del regista, di quello che ha vissuto, e delle mattinate assolate passate per le strade del Vomero, dove si vede tutta la città e il mare è una linea lontana all’orizzonte.

 

Con “È stata la mano di Dio”, il suo nuovo film prodotto da The Apartment e distribuito da Netflix, Sorrentino non torna alle origini, non si rimette sulle tracce del regista e dello scrittore che è stato (e che, in parte, è ancora); ma ritorna a Napoli da adulto, da uomo che ha visto e che ha fatto, e che ora può maneggiare la materia della memoria con più attenzione e abilità. Perché è di questo, alla fine, che parlerà: di sé stesso e della “sua” – quella che ha conosciuto, che ha imparato ad apprezzare, di cui ha avuto paura e che l’ha fatto arrabbiare – Napoli. Nella sostanza e nei suoi punti salienti (luoghi, palazzi, case, strade, quartieri) è un’autobiografia.

 

La giovinezza, l’inesperienza, la passione (la passione cieca, soprattutto), e poi il calcio, il cinema e le storie infinite di una città che non è mai la stessa, mai uguale, e che cambia in continuazione. La casa, la famiglia, gli affetti. Diventare uomini e riscoprirsi figli. Guardare indietro e imparare ad essere padri. La mano di Dio del titolo è quella del destino, del fato, ma pure quella di Diego Armando Maradona, il calciatore maledetto, amato e odiato, venerato come un dio e condannato perennemente nella parte del ribelle.

Maradona compare, anche se solo per un attimo, ne “La giovinezza”, un film in cui Sorrentino mette in scena la precarietà della vita, la complicità intima dell’amicizia e la bellezza dell’esistenza (e, di contro, l’ombra nera della morte). Maradona, lì, è il talento sepolto sotto un letto di stanchezza, la scintilla primordiale della bravura: tutto quello che non può essere nascosto o dissimulato, perché c’è, esiste ed è innegabile. (“A 16 anni”, ha raccontato Sorrentino, “ho seguito Maradona in una partita contro l’Empoli, e mi ha salvato la vita”).

 

Con Napoli, Sorrentino condivide la capacità di vedere le cose per quello che sono e non per quello che potrebbero essere. Ne “L’uomo in più” le promesse non hanno consistenza. Sono parole al vento che si perdono alla prima occasione. Al loro posto restano i ricordi, le delusioni e i fatti: quelli piccoli, di ogni giorno, pieni di quotidianità e di ripetizioni; e poi quegli altri, incredibili e irripetibili, più unici che rari, che sono come un punto nero scavato sulla facciata bianca di un foglio: non cambiano mai, e non importa da quale prospettiva li si guardi. Sono quei fatti che sanno di meraviglia e di straordinarietà, come una sera di tanti anni fa a Los Angeles, agli Oscar, su un palco illuminato a giorno a ringraziare Maradona, i Talking Heads, Federico Fellini e Martin Scorsese, mentre le dita delle mani si palleggiano una statuetta dorata.

 

In “Hanno tutti ragione”, edito da Feltrinelli, i ricordi sono mattoni, sono i gradini di una scala lunghissima e tortuosa, che sembra puntare in alto ma che in realtà conduce indietro, all’inizio, al giorno uno: questo è stato, questo è, questo sarà. Sorrentino torna a Napoli per ritrovare un contatto primitivo, più puro e viscerale, con il cinema. E torna a Napoli anche per ritrovare sé stesso, per raccontare, come dice, “una storia personale e intima”.

Questo film, per me, significa tornare a casa”. E casa è dove sono le radici, dove la terra si apre e si intravedono le fotografie sbiadite dell’infanzia, piene di colori a caso, di voci gorgoglianti e di odori che hanno il potere di rievocare i sentimenti. Tornare alle radici vent’anni dopo il primo film, dopo l’Oscar, dopo aver girato il mondo, dopo aver firmato due serie tv (e anche queste, grazie al cardinale Voiello di Silvio Orlando, piene di Napoli), dopo aver lavorato con chiunque. Certe volte, però, un viaggio è solo un viaggio, la meta non conta, non s’arriva in nessun posto, ed ogni cosa è solo una scusa per tornare dove tutto è iniziato.

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