1920-2020, il centenario del regista

Il Fellini che è in noi anche senza aver visto i suoi film

Andrea Minuz

È l’Italia in ciò che ha di più arcaico, insondabile, perenne. “Amarcord”, mitobiografia della nazione. Parlando di sé, delle sue ossessioni, della sua educazione cattolica, della vita in provincia e a Roma, ha parlato soprattutto di noi

Ci sono i ristoranti all’estero che si chiamano “La dolce vita”. Ci sono le parole entrate nel vocabolario: “paparazzo”, “amarcord”, “vitellone”. Ci sono aeroporti, strade, piazzali, scuole medie e licei intitolati a Federico Fellini. Non è facile però trovare qualcuno sotto i trent’anni che abbia visto un suo film (interrogato vi dirà nel dubbio che Fellini era un “Maestro”). Fellini non si incontra quasi mai alla tv e non c’è traccia di Fellini su Amazon o Netflix. Nella migliore delle ipotesi, per la stragrande maggioranza dei millennial “La dolce vita” non è un film ma un’immagine: Mastroianni e Anita Ekberg a mollo nella Fontana di Trevi come due impareggiabili influencer del made in Italy. Un pezzo di cinema che in effetti sembra creato apposta per la Instagram society, aggiornamento di quel rotocalchismo variopinto da cui, com’è noto, Fellini tirò fuori la sua invenzione.

 

  

Segni della grandezza di un’opera: spargere i suoi effetti un po’ ovunque, nel costume, nella moda, nello spirito del tempo

Sono questi i segni della grandezza di un’opera. Spargere i suoi effetti un po’ ovunque, nel costume, nella moda, nello spirito del tempo, quasi senza più bisogno di passarci dentro. Fellini lo sapeva benissimo e quando provava a smarcarsi dai rimandi, dalle citazioni, dalle influenze e ascendenze culturali che la critica gli aveva appicciato addosso dopo “Otto e mezzo” diceva: “Non ho letto Proust, non ho letto Joyce, non so un cazzo di niente. Non c’è bisogno che tu abbia letto Joyce o che tu vada vedere i quadri di Picasso, ormai la vita è condizionata da quelle opere, quindi basta che tu viva e per forza ne assorbi il contenuto”. Vale anche per noi. Siamo ormai condizionati dal cinema di Fellini anche se i suoi film si vedono poco e niente. Resistono invece i luoghi comuni, pronti col centenario alle porte a trasformarsi in minacciose nozioni da scuola dell’obbligo e temi della maturità: “Sembra un film di Fellini”, detto quando spunta un clown triste, una tromba malinconica, un prestigiatore improbabile, un’“alba livida” al mare d’inverno dopo una sbronza, un donnone malandato con tette e culo extra-large o, come si dice oggi, “curvy” (consiglio per il Miur e il nuovo ministro della Scuola, se proprio si dovrà utilizzare Fellini alla maturità, meglio “Kim Kardashian, le veneri paleolitiche e la donna felliniana” che “Svevo, Pirandello, Fellini e la crisi d’identità dell’uomo moderno”). Ma il centenario potrebbe anche essere l’occasione per ripensare, storicizzare, “problematizzare” Fellini lontano dagli stereotipi.

   

 

Pronti film, libri, documentari, come “Fellini degli spiriti”, di Anselma Dell’Olio, un viaggio nel sovrannaturale felliniano

Preannunciato da una mostra progettata da “Studio Azzurro” (Fellini 100) a Rimini si inaugura il “Museo internazionale Federico Fellini”, una struttura che “restituirà tutto quello che il cinema vuole essere fin dalla sua origine e che i film di Fellini esprimono nel modo più compiuto: stupore, fantasia, spettacolo, divertimento”, così almeno nelle intenzioni dell’amministrazione. Pronti film, libri, speciali televisivi, documentari, come “Fellini degli spiriti”, della fogliante Anselma Dell’Olio, un viaggio nel sovrannaturale felliniano che restituirà un aspetto decisivo ma poco studiato dell’opera di Fellini, regista alle prese con il mondo esoterico, e assiduo frequentatore di Gustavo Rol, il celebre sensitivo torinese, raccontato anche da Dino Buzzati nei suoi “Misteri d’Italia”. Ma non c’è un ingresso privilegiato per entrare nel mondo di Fellini. Qui possiamo solo tentare di girarci intorno con una scorribanda poco ortodossa, un percorso a blocchi tra pezzi di cinema e di Italia che Fellini ha messo insieme e incastonato uno dentro l’altro, in un arco che va dal Dopoguerra alla fine della Prima Repubblica.

 

Felliniano

Partiamo da qui, allora. Da quell’aggettivo, “felliniano” che, secondo il vocabolario della Treccani si riferisce “alle particolari atmosfere, situazioni, personaggi dei suoi film, caratterizzati da un forte autobiografismo, dalla rievocazione della vita di provincia con toni grotteschi e caricaturali, da visioni oniriche di grande suggestione”. Eppure, in quest’aggettivo riconosciamo non solo i segni di un’opera e della sua canonizzazione culturale, ma noi stessi riflessi in un grande, gigantesco ritratto di famiglia, come nel manifesto di “Amarcord”. “Dietro tutti i personaggi del film”, spiegava Fellini all’illustratore Giuliano Géleng, “vorrei una vasta campagna o una spiaggia o il mare e alcune situazioni del film: il Grand Hotel, il Rex, una tavolata nuziale”. E’ uno dei manifesti più iconici di tutta la filmografia felliniana. Un’immagine emblematica della sua idea di cinema e della sua idea di Italia. Sintesi perfetta e colorata di un paese sognante ma “al contempo minaccioso”, pigro, infantile, feroce, sprofondato nel torpore di una “sterminata domenica”, come direbbe Claudio Giunta. Con la “Gradisca”, il gerarca fascista, la tabaccaia, i giovani sposini, il nonno, i carabinieri. Non un melodramma, ma la caricatura di un melodramma.

   

La “Gradisca”, il gerarca fascista, la tabaccaia, i giovani sposini, il nonno. Non un melodramma, ma la caricatura di un melodramma

Fellini pensava all’Italia chiusa, arretrata e impaurita degli anni Trenta. Alla vita sonnolenta in provincia, alla Rimini fascista in cui era cresciuto. Ma resta un’immagine perfetta per l’Italia di oggi e di sempre, col Rex che all’occorrenza può diventare anche una “Diciotti” o una “Sea Watch” carica di migranti. Altro che autobiografia. Siamo casomai dalle parti di una “mitobiografia della nazione” costruita per accumulo di simboli, immagini, archetipi, materiali alti, medi e bassi in cui collassano una dentro l’altra la realtà e l’immaginazione, il vero e il falso, il presente e il passato. Se Antonioni, come diceva Arbasino, è “un prodotto della stagione dell’Alienazione”, perfetto per raccontare i tic culturali di un’epoca e di uno “spiacevole tema che com’è noto ha portato male a tanti”, Fellini è l’Italia in ciò che ha di più arcaico, insondabile, perenne. Pochi mesi prima della morte (Fellini era nato a Rimini, il 20 gennaio del 1920, morì il 31 ottobre del 1993), l’Università di Bologna conferì a Fellini una laurea ad honorem. All’epoca la cosa aveva ancora un po’ di valore. Lui però, cortesemente, rifiutò. Scrisse una lunga lettera indirizzata al Rettore dell’ateneo in cui lo pregava di non equivocare. Non rifiutava per snobismo, o superficialità, o supponenza (“come se io non volessi attribuire al mio lavoro l’importanza che gli altri mostrano di riconoscergli”) ma per via di uno strano disagio. “Mi consenta una confidenza, ma mi sento come Pinocchio decorato dal preside e dai carabinieri per essersi divertito nel paese dei balocchi”.

 

Rifiutò la laurea ad honorem: “Mi sento come Pinocchio decorato dal preside e dai carabinieri per essersi divertito nel paese dei balocchi”

Il trasgressore premiato dalle Istituzioni con la pacca sulla spalla, l’artista che aveva fatto arrabbiare a turno comunisti e democristiani, vescovi e fascistoni, neorealisti e femministe, portato infine in trionfo con la fanfara, il sindaco, l’inno di Mameli, la fascia tricolore. Ecco qualcosa di molto “felliniano”. “Proprio perché sono grato al mio lavoro”, concludeva Fellini, “mi sento già assolto, e forse già premiato, dall’aver fatto i miei film, perché mi sono divertito a farli”.

  

Fellini politico

In occasione dei funerali di Fellini, Ettore Scola disse che era stato “il più politico, contro ogni apparenza, dei registi italiani”. Strano a dirsi per un’opera che è stata letta come la quintessenza della fuga dalla realtà, del sogno, della libertà creativa, dell’invenzione visiva, della poesia. Scola però aveva ragione, a patto che ci si intenda sul termine. Fellini era quanto di più distante ci fosse dall’“impegno” e il suo disinteresse per la politica era ed è celebrato come parte integrante del mito felliniano. Non faceva film a tesi, a meno che la tesi non fosse egli stesso. Ma parlando di sé, delle sue ossessioni, della sua educazione cattolica, della vita in provincia prima e a Roma poi, dei suoi ricordi in gran parte inventati o rubati ai suoi sceneggiatori, come il povero Flaiano (“Fellini mi ha messo un tubo in petto e mi ha succhiato via tutto”), Fellini ha parlato soprattutto di noi. Lo diceva assai bene Moravia: “Fellini ricorda, ma non fa dell’autobiografia”. O ancora Natalia Ginzburg su “Amarcord”: “L’evocazione di quegli anni sembra scaturire non da una memoria privata e personale, ma da una sorta di memoria corale cantata a voce spiegata”. “Fellini non era di sinistra, ma era gradito alla sinistra”, diceva recentemente Cecilia Mangini, “non era cattolico, ma gradito ai cattolici, non era laico, ma gradito ai laici”.

 

“Non era di sinistra, ma era gradito alla sinistra”, ha scritto Cecilia Mangini, “non era cattolico, ma era gradito ai cattolici”

Questa astuzia tipicamente felliniana di collocarsi oltre gli schieramenti ideologici e le contrapposizioni così forti, nette, violente del nostro Paese, o la mirabolante idea di sostituire il neorealismo degli operai, dei contadini e dei disoccupati coi fumetti, l’inconscio, l’avanspettacolo, le soubrettine, lo ha messo nelle condizioni ideali per svolgere un discorso sull’italianità, i suoi archetipi e il nostro complicato, traumatico rapporto con la modernità. Mosso da una frenetica curiosità per un mondo nuovo che avanzava e una profonda malinconia per ciò che svaniva. Fellini si scaraventa in quel fiume in piena che è stata la nostra modernità non già per capirla, tantomeno per metterci in guardia, come Calvino o Pasolini, ma per restituircela come gigantesco luna-park, una sfilata di simboli portentosi. Ecco il Cristo in elicottero che vola sopra le borgate romane, ecco il defilé ecclesiastico in “Roma”, o l’enorme maglio d’acciaio che irrompe nel finale di “Prova d’orchestra”, o il rinoceronte di “E la nave va”, il “Rex” di cartone, Venezia col mare di plastica, ma anche Alberto Sordi “sceicco” sulle dune di Ostia o vitellone che spernacchia i lavoratori (senza Fellini non avremmo avuto la commedia all’italiana così come l’abbiamo conosciuta).

 

Oggi non è possibile comprendere il senso di spaesamento, di scardinamento delle posizioni in gioco che comportò l’arrivo di Fellini sulla scena italiana degli anni Cinquanta, senza rievocare un clima culturale in cui il realismo e l’antifascismo erano l’unico coefficiente di valore, qualità e giustezza di un’opera. Eppure, proprio con “Amarcord” Fellini, per istinto o riflessione poco importa, fa invecchiare di colpo una scia di film, libri, analisi del fascismo costruite sullo stereotipo assolutorio del “male assoluto” e del corpo estraneo della nazione.

 

“Amarcord” racconta invece un intrinseco, imbarazzante legame tra mentalità fascista e ideologia italiana, ma senza alcuna diagnosi, senza alcun “atteggiamento giudicante”, al contrario mettendosi in gioco in prima persona: “La provincia di Amarcord è quella dove siamo tutti riconoscibili, autore in testa, nell’ignoranza che ci confondeva. Una grande ignoranza e una grande confusione. Non che voglia minimizzare le cause economiche e sociali del fascismo. Voglio dire solo che ancora oggi quel che più mi interessa è la maniera psicologia, emotiva dell’essere fascisti. Qual è questa maniera? E’ una sorta di blocco, di arresto alla fase dell’adolescenza”.

  

  

Fellinismo e femminismo

Veniamo così a una costola decisiva dell’aggettivo, vale a dire “la donna felliniana”. Difficile immaginare oggi Fellini alle prese col cinema nell’epoca del #MeToo. I rapporti con le femministe si annunciano tesi già al Festival di Cannes del 1972, dove Fellini presenta “Roma”. Un gruppo di attiviste americane strappa il cartellone promozionale del film (una donna con tre seni nella posizione della lupa nutrice di Romolo e Remo). Le contestazioni continuano nel ’73 e poi ancora nel ’76 (rispettivamente l’anno di uscita di “Amarcord” e “Il Casanova”). Mentre al cinema trionfa “Amarcord”, Effe, il “settimanale di controinformazione al femminile”, che inizia le pubblicazioni proprio nel ’73, elegge Fellini “antifemminista del mese” (Fellini è in buona compagnia, nei numeri seguenti il primato andrà a Paolo VI, Kissinger, Fanfani, Rossellini, Pier Paolo Pasolini e prima ancora era toccato a Gheddafi).

 

Della stesura delle motivazioni si incarica Adele Cambria, tra le fondatrici della rivista. Il giudizio è inappellabile: “Che nel ‘73 Fellini si impaludi ancora tra i quattro stereotipi della madre, della moglie, della fidanzata e della puttana, ci pare un segno di arretratezza culturale cui, secondo noi, non corrisponde nemmeno più la realtà del paese”. Alla fine degli anni Settanta, quando Eugenio Scalfari lo va a trovare sul set de “La città delle donne”, Fellini invita invece a rileggere tutto il suo cinema nella chiave del femminismo: “Ne ‘La strada’ la protagonista era una donna pupazzo, trattata dall’uomo come un pupazzo, un oggetto, un animale; ma quando lei muore, lui impazzisce. In ‘Giulietta degli spiriti’ accade più o meno l’incontrario, ma il senso è il medesimo. Questi due film furono girati più di vent’anni fa, ma erano due film femministi. Se ne sono accorti in pochi, ma ti garantisco che è così”.

 

Quello di Fellini è un trascendente spettacolare, ipermediatizzato, ancora oggi un passaggio obbligato per ogni “Young Pope” al neon

Ma allora la strabordante “donna felliniana”? Le tette della tabaccaia? L’harem di “Otto e mezzo”? La frusta? Certo. Però non si può non notare che Fellini mette in scena dei fallimenti sistematici (il fallimento di finire il film in “Otto e mezzo”, il fallimento del tentativo di raccontare “Roma” o “I clown” con un’inchiesta e di mettere in scena le memorie di “Casanova”). Anche nella rappresentazione dell’universo femminile felliniano si celebra anzitutto il fallimento del maschio, “maschio italiano, vitellone, fascista, bambinone”, non la “mercificazione” della donna. La dilatazione delle forme femminili è al contrario dilatazione grottesca della frustrazione maschile. E’ come, dice Fellini, “un povero che pensando al denaro ragioni e farnetichi non di migliaia di lire, ma di milioni, di miliardi”.

 

Lo stesso anno Playboy pubblica una lunga intervista a Fellini sul “sesso, il cinema, il matrimonio, le donne grasse”. Interrogato in merito alla propria posizione nei riguardi del femminismo, il regista risponde: “Mi irrita il tentativo, oggi così frequente, di far diventare politico, di contrabbandare per politico, un discorso che dovrebbe essere psicologico o artistico. Così, se per femminismo si intende il sostenere i diritti della donna in tutti i campi per l’affermazione della sua personalità e delle sue qualità spesso così misconosciute e ignorate, sono anch’io femminista. Se invece femminismo è una pseudorivoluzione nella quale donne incapaci di essere tali vogliono avallare le loro incapacità facendole diventare meriti e virtù, non mi pare questo un femminismo apprezzabile. Sarebbe come se gli storpi si unissero per dire che la condizione normale debba essere quella della minorazione fisica”. Immaginiamolo ribadire la posizione da Lilli Gruber o da Fazio o in un’intervista di Michela Murgia per Repubblica. Chissà il delirio sui social, gli insulti, il boicottaggio nelle sale.

 

Estetizzazione del cristianesimo

Con “Amarcord” invecchia di colpo una scia di film, libri, analisi del fascismo costruite sullo stereotipo assolutorio del “male assoluto”

A proposito de “La dolce vita”, l’antropologo Ernesto De Martino parlava di “verità etnografica”. Quello strano intreccio tra fede e superstizione, arcaismo contadino e società dello spettacolo che attraversa la celebre scena del “falso miracolo”. Dal Cristo in elicottero alla sfilata di moda ecclesiastica in “Roma”, Fellini prima e meglio di altri racconta i segni di un “cristianesimo in frantumi” (Michel De Certeau), la progressiva folklorizzazione della vita spirituale che attraversa la società degli anni Sessanta, lo slittamento dei simboli religiosi dentro altri orizzonti di senso.

 

  

Come scriveva Michel De Certeau in un breve testo pubblicato nel ‘74 (“Le Christianisme éclate”): “Il corpus degli scritti e dei riti cristiani è percepito, e dunque impiegato, come un insieme di opere d’arte belle, poetiche, suggestive: chiese, testi liturgie offrono materia alla creazione teatrale, alle poetiche segrete della lettura, alle composizioni nuove dell’immaginario sociale. Non sono più i testimoni di una rivelazione, i segni di una verità consegnata alla fede cristiana, ma piuttosto le rovine ammirabili di una simbolica che apre a ogni possibilità di invenzione ed espressione”. Quello di Fellini è allora un trascendente spettacolare, ipermediatizzato, ancora oggi un passaggio obbligato per ogni “Young Pope” al neon. Ma la sfilata ecclesiastica in Roma raccontava anche, con grande anticipo, il ribaltamento di ruoli tra moda e religione. E’ la seriosa “religiosità” con cui oggi si assiste a una passerella di Prada, è la moda come ultimo baluardo dello spirito (e quanto Fellini nella sfilata di Gucci ai Musei Capitolini, nella passerella di Fendi sopra la Fontana di Trevi, in Rihanna vestita da Papa a un gran galà dell’anno scorso).

 

Roma

La sepoltura di “Filippa”, la talpa scavatrice per realizzare la metro C, ormai abbandonata al suo destino di inabissamento tra ruderi, tombe e rovine sotterranee di Roma. Il cimitero con gli spazzaneve di Alemanno. I cinghiali sulla Balduina. I selfie coi gladiatori al Colosseo. L’indimenticabile festa organizzata qualche anno fa da Carlo De Romanis (all’epoca consigliere regionale Pdl), un favoloso party in costume da “antichi romani” celebrato a Viale delle Olimpiadi, gli eroi in armatura con la panza, le ninfe scosciate, le ancelle devote col mojito e i gin-tonic e senatori travestiti da maiali. La Roma di Raggi e la Roma di Fellini, che potrebbe essere un altro, ottimo tema della maturità di quest’anno. Roma è oggi una città diventata in gran parte un film di Federico Fellini.

 

Anche nella rappresentazione dell’universo femminile felliniano si celebra anzitutto un fallimento, quello del maschio

“E’ la città fantastica che ho immaginato da bambino, che ho scoperto da ragazzo, nella quale ho vissuto e lavorato, e che oggi mi sembra di non conoscere più”. Così, nel 1972, Federico Fellini presentava, “Roma”, un film poco visto, poco celebrato rispetto ad altri titoli del regista, largamente incompreso alla sua uscita. “Roma” è invece un pezzo essenziale del cinema, con una serie di visioni diventate ormai parte integrante dell’immaginario della città (l’ingorgo apocalittico sul Grande Raccordo Anulare, le rovine negli scavi della metropolitana, la sfilata dei motociclisti che chiude il film, e che adesso si potrebbe rifare coi monopattini o gli scooteroni). Epilogo di una trilogia composta da “La dolce vita” e “Satyricon”, “Roma” è l’ultimo titolo della filmografia felliniana in cui la mitologia della città gioca un ruolo decisivo (“Roma” è un film senza trama, senza protagonista, senza star, fatto solo di scene autonome, oggi sarebbe una serie tv formidabile). C’è l’attrazione per la sua vocazione spettacolare ma anche l’insofferenza per il carattere atavico, primitivo, volgare dei suoi abitanti. C’è il peso ingombrante della sua mitologia letteraria e lo sgretolamento di ogni possibile “missione” di Roma dentro quella specie di girone infernale che è il “Teatrino della barafonda”, raccontato da Fellini come omaggio funereo al mondo dell’avanspettacolo dell’Ambra Jovinelli tra le due guerre. Roma come problema nazionale, allucinazione collettiva, musa ispiratrice.

  

  

Nell’ottobre del 1972, a ridosso dell’uscita del film, il Corriere della Sera organizza un dibattito con Goffredo Parise e Fellini, chiamandoli a confrontarsi sull’eterna opposizione tra Roma e Milano, le “due grandi immagini in cui si ravvisa sempre il nostro paese”. “Che cosa erano e che cosa sono per l’Italia e per gli italiani queste due città?”, si domandano Parise e Fellini nella loro chiacchierata, “quale lezione si ricava dalle loro storie, dalla vicenda della esplosiva urbanizzazione, del traffico caotico, della speculazione edilizia?”. Volteggiano Parise e Fellini sopra stereotipi e luoghi comuni della milanesità e della romanità rievocando il vissuto, le reciproche esperienze. Raccontando il suo arrivo a Milano, Parise ricorda di aver trovato, “orari d’ufficio, padroni confusi e moralistici, paura e non dolcezza della vita”. Anche Fellini rievoca il suo arrivo a Roma, “città africana, fatta di palmizi, giardinetti polverosi, gente in canottiera seduta sulla sedia di casa fuori dai portoni”, riprendendo qui la massima di Flaiano, “Roma, unica città mediorientale senza un quartiere europeo”. Infine: “Mi ricordo una frase che mi colpì e che sentivo ripetere spesso dai miei padroni di casa quando, agli inizi, abitavo in una camera ammobiliata. Il figlio della padrona di casa diceva la sera alla mamma e alla moglie: ‘Annamo a vede Roma’. Abitavano nei pressi di Santa Maria Maggiore. C’era in loro l’idea di concedersi una serata passeggiando per Roma, come uno spettacolo. Non credo che due milanesi dicano, andiamo a vedere Milano. “Forse”, replicava Parise, “dicono andiamo a vedere Roma”.

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