Poveri ma Risi

Michele Masneri e Andrea Minuz

Al residence ai Parioli dove visse per trent’anni il regista. L’invenzione dell’estate e dei “fusti”. L’epica del film a episodi, Maurizio Arena, il Tevere, le principesse. Fiumicino e i nuovissimi mostri

Siam sempre noi, il lombardo e il romano, a celebrare i dieci anni di Dino Risi. Oggi si rende omaggio ai luoghi. Al residence Aldrovandi, ai Parioli, dove il regista (1917-2008) doveva vivere “una settimana, invece ci è rimasto trent’anni”. Disse alla moglie: “Mi sembra che non ci prendiamo più tanto, meglio che ci lasciamo”. Lei rispose: “ti preparo le valigie”. Quel giorno andò a sistemarsi nel residence Aldrovandi. Non se ne andò mai.

 

MM Il residence sorge anzi torreggia nella più araldica e misteriosa zona dei Parioli, quella che costeggia la villa Borghese e affaccia sullo zoo. Ci si va una mattina di agosto, tra le cicale e le rotaie del tram sfatte nell’asfalto disciolto dal calore. Il residence ora si chiama “Aldrovandi City Suites”, quaranta stanze, informa il direttore, Manuel Libertucci (che nome risiano) Dentro, ottoni, busti di imperatori romani, signori in canottiera che si aggirano nella hall; sono i manutentori che tanto peso avevano avuto nella scelta risiana – se si rompe un rubinetto non devo chiamare nessuno, diceva. Il palazzo, di quello stile tipico signoril-pasticcero, fu costruito nel 1911 per i cinquant’anni dell’Unità d’Italia come uno dei padiglioni di quell’Expo che creò molti edifici non effimeri, tra cui tutto il quartiere di valle Giulia con la Galleria Nazionale d’Arte moderna. Poi diventa convento di clausura, poi collegio femminile, l’Istituto Cabrini per le fanciulle in fiore. Poi viene comprato dall’imprenditore napoletano Giossani che lo unifica con un suo edificio gemello, quello che è oggi l’Hotel Aldrovandi. Ancora oggi tra i due edifici c’è un tunnel – interrotto – ma ai tempi d’oro collegava i due edifici. “Negli anni Cinquanta e Sessanta nella piscina dell’Aldrovandi nuotavano le maggiori star dell’epoca”, dice sempre il direttore. La piscina, profonda fino a quattro metri e di forma trapezoidale, immersa nella wilderness pariola, ha anche un angolo come ritagliato, una specie di isola o isolotto, con una palma altissima. “Quello era l’angolo di Risi, che aveva sempre un tavolo prenotato”. Il compound dell’Aldrovandi è forse l’angolo più sicuro di Roma: “Siamo tra la residenza dell’ambasciatore americano, quella israeliana, la villa dell’emiro del Qatar”, dice il direttore. “Tre paesi che non si parlano”; e in mezzo c’è la piscina di Dino Risi.

 

“Siamo tra la residenza dell’ambasciatore americano, quella israeliana, la villa dell’emiro del Qatar”, dice il direttore

“Abbiamo scoperto un paese godereccio e pieno di soldi, abbiamo scoperto che c’era il mare, prima il mare non lo guardava nessuno”

Scendiamo a fare un giro, nelle cucine, nella sala colazioni, tutto è damascato color zafferano, il tunnel è stato murato perché poi le due proprietà sono state separate e oggi anche l’hotel ha una sua piscina (l’hotel è più contemporaneo e lussuoso, e c’è tutta una gara di piscine in un chilometro quadrato: quella risiana, quella dell’hotel, quella del parco dei Principi praticamente di fronte, cara a Emilio Colombo; gli abitanti dei Parioli hanno forse più consumo di cloro pro capite di tutto l’Occidente, se si vuole considerare Roma occidentale).

 

Poi con un po’ d’emozione si sale al terzo piano e siamo nella 302, l’appartamento di Risi, quello in cui morì dieci anni fa. Anche qui, damasco alle pareti, un salotto con due divani chiari che si guardano, Piranesi da dentista alle pareti, un bagno a piastrelle blu (niente resine, niente lavandini avveniristici, invece sanitari tondi anni Ottanta, e moquette spessa, scura, da congresso). Ed ecco la famosa cucinetta dove si faceva le uova al tegamino: è azzurra, tipo Febal, con le piastre elettriche da residence. C’è la finestra sullo zoo, quella famosa da cui si affacciava con Gassman che lo andava a trovare (Gassman era depressissimo e diceva: la vedi quell’aquila? Sono io). Però il direttore dice che si affacciava soprattutto dal terrazzo. Saliamo su, e si vede tutta Roma, ma soprattutto lo zoo, di fronte, che sembra un villaggio Cajun deserto, o un fortino dei Playmobil, comunque surreale. Deserto, cicale: ed è subito Marisol. “Da bambino venivo allo zoo con mio padre e chiedevo sempre cosa fosse questo palazzo” dice il direttore. “Con tutte quelle bandiere. Mio padre rispondeva: “E’ un’ambasciata”.

 

In questa ambasciata di uno Stato immaginario hanno abitato, per giorni o per decenni, tra gli altri: Edwige Fenech, Cossiga, Cirino Pomicino. E l’ex presidente della Rai, Campo dall’Orto, in incognito (aveva una camera non lussuosa, pagava in anticipo, tutto il personale ha scoperto solo dopo giorni chi era, insospettito dalle continue riunioni a bordo piscina). Si affaccia una signora, “cliente da dieci anni”. “Le facciamo fare subito la stanza”, le dice il direttore. Anche lei doveva rimanere pochi giorni. Arriva la governante Caterina, che aveva cominciato come cameriera negli anni di Risi, ed è oggi capa della Downton Abbey dell’Aldrovandi, sovrintendendo a una squadra di cinque cameriere e “tre facchini”. Riservatissima, inutile chiederle di eventuali signore che venissero in udienza risiana.

 

Dice solo che a Risi “gli facevo io la stanza”, era gentilissimo, e solo insistendo le si estorce che: si cucinava sempre da solo. Si alzava alle otto, scendeva a prendere il giornale, aveva tanti libri. Dava molte mance, e un panettone e una bottiglia a Natale. L’ultima compagna, Leontine Snell, ha detto in una intervista che “Dino non era semplicemente un solitario, era proprio misantropo. Perciò mi sono sentita onorata dalla sua scelta di stare con me”. La loro unione è durata tutto il tempo del residence. “Se avessimo abitato insieme sarebbe finita subito”, disse Risi.

 

In questa ambasciata passano importanti personaggi: ci hanno vissuto Edwige Fenech, Francesco Cossiga, Paolo Cirino Pomicino

Da una parte ci sono i registi pensosi della crisi che non fanno una lira. Dall’altra, quelli che fanno bell’intrattenimento e i miliardi

Il portiere Luigi non c’è, è in vacanza in Grecia. Anche il manutentore Enzo non c’è. Il portiere Luigi e il manutentore Enzo sono quelli che conoscevano bene il regista, ci dice il figlio, Marco Risi. “Tutto è rimasto com’era, qui”, dice orgoglioso il direttore dell’Aldrovandi. “Anche le cabine degli anni Sessanta, che vengono direttamente dal Lido di Venezia”, e in effetti con queste cabine blu a righe attorno alla piscina con la sua palma sembra d’essere in uno di quei film balneari che un po’ l’hanno inventata, l’estate italiana.

 

AM: Come le cabine di Castiglioncello, di Castiglione della Pescaia, Calafuria, Portofino, Rimini, Riccione (come in “l’Ombrellone”, con Enrico Maria Salerno e Sandra Milo, altro film sulla frenesia estiva, altro film di Risi sottovalutato). Il cinema italiano di quegli anni è stato anche la scoperta dell’estate che è naturalmente la scoperta dell’Italia, e qui Dino Risi resta formidabile; Rodolfo Sonego, principe degli sceneggiatori e cervello di Risi (insieme a Scola, Maccari, Age e Scarpelli), diceva che coi loro film avevano contribuito all’affermazione di queste località, di queste stazioni, di queste vacanze, di questo boom: “Abbiamo scoperto un paese godereccio e pieno di soldi, abbiamo scoperto che c’era il mare, prima il mare non lo guardava nessuno”; perché prima il mare era una minaccia, come quello nero, rabbioso e neorealista dei Malavoglia e de “La terra trema” di Visconti. Ci voleva l’invenzione dell’estate per raccontare questo paese. Anche oggi quando vedi Salvini a torso nudo a Riccione, circondato da signore e bambini che si fanno i selfie e le manifestazioni antirazzismo si rimandano a settembre perché mo stamo al mare e non ce vie’ nessuno (pensavo fosse una gag dei “Mostri” invece era il Pd); ecco che tutto torna un po’ sotto controllo, antico, familiare: “crazy country, but beautiful”; Dino Risi l’aveva capito benissimo, coi night, le spiagge, gli imprenditori con le mogli giovani e belle, le spider e tutta questa topica del boom che poi è passata ai Vanzina, perché l’Italia dei Vanzina è l’Italia di Dino Risi vista dai Parioli degli anni Ottanta.

 

MM: Anche prima, col “seminale” - lo dice Sanguineti, eh, sempre nel solito meraviglioso librone Adelphi; – “Vacanze d’inverno” del 1959, di Camillo Mastrocinque, sceneggiato da Sonego. “Come se dallo sperma congelato di questo prototipo filmico, ventiquattro anni dopo con il film Vacanze di Natale di Carlo Vanzina sia nato il filone più longevo del cinema italiano di intrattenimento: il cosiddetto cinepanettone”. E’ bella, però, più della similitudine andrologica, questa specifica, dell’intrattenimento: perché poi Carlo Vanzina nonostante il bell’intrattenimento e i miliardi voleva tanto essere invitato a Venezia. Magari adesso introdurranno come a Hollywood il Leone d’Oro Popolare (LOP!): troppo tardi.

 

AM: Venezia, il lido e tu. Che inutile affanno. Poi si sa “i critici sono sempre gli ultimi a capire i film” (lo dice Risi eh); e allora, già che ci siamo, diciamo anche che “Venezia la luna e tu” è il più bel film girato a Venezia, tra i pochissimi non lugubri, non tetri, pseudo-wagneriani, finto-gotici o super kitsch, effetto “boule de neige”; una formidabile Venezia in technicolor con Sordi gondoliere-Arlecchino che parla in veneto però ogni tanto gli scappa un “vie qua’, ‘ndo vai”, si muove in modo incredibile, non recita, danza, sembra Gene Kelly e il film un musical della MGM (poi ci sarebbe “Anima persa”, del 1977, dal racconto di Giovanni Arpino, però lì anche Risi annega nella solita Venezia cupa, malinconica, quasi horror; uno strano film alla Polanski con la Deneuve lobotomizzata e Gassman mezzo matto che legge Holderlin in tedesco, non era nelle sue corde).

 

MM: Sanguineti dice delle cose terribili su Visconti, a Venezia: cioè poi sempre la solita accusa: che la passamaneria ha la meglio sulla poesia, e che in “Senso” tutto l’interior decoration funziona meglio della storia, e le migliori energie si spendono per ricostruire la battaglia di Custoza come nei quadri di Fattori. Alida Valli era stata uno dei primi amori di Risi, quando faceva l’aiuto regista sul set di Piccolo mondo antico. Rubandola a Mario Soldati, il regista. Oggi la Serpieri contessa ribelle nel Veneto palladiano avrebbe almeno un milione di followers.

 

AM: A Risi gli è mancato solo Instagram, oggi un sacco di nuovi, ferocissimi Mostri da raccontare, magari con le Instagram Stories o IGT TV: la raccomandazione per entrare nella Rai sovranista; il monologo del deputato-velista, il “navigatore solitario” che sparge le ceneri dei vitalizi tra gli oceani; la coppia Pd che va a vedere “Fuocoammare” si incanta per l’azzurrità delle acque e prenota le vacanze a Lampedusa, come Tognazzi e consorte nella gag della fucilazione nazista al cinema, coi partigiani stesi al muro: “Vedi cara, il muretto della nostra villa lo farei proprio come quello…”; Casalino e il fidanzato cubano che fanno i macho col cagnetto a Ponza, come in “Latin Lovers”; Dibba che educa il figlio al culto dell’Onestà, come nel primo episodio, “educazione sentimentale”.

 

MM: Quante ce ne sarebbero. La deputata anti-vaccinara, la Taverna. Il fallito lamentoso e complottista, come la ragazza che nel Vedovo si lamenta perché non la prendono come annunciatrice alla Rai nonostante la zeppola (e la mamma, che si chiama Italia, chiede al sugar daddy Alberto Sordi se non può fare lui una telefonata). La sindachessa piagnona. E l’eterno anticasta, altro che eterno fascismo: “Oggi non si chiama più parlamento ma pappamento”, dice Tognazzi violando il codice stradale e già indignato, correva l’anno 1963.

 

Ma perché abbiamo smesso coi film a episodi? Noi poi, che non c’abbiamo mai avuto il senso della struttura narrativa

Se fossi uno sceneggiatore farei subito un film a Fiumicino, col corteo di politici che vanno a girare il video dell’aereo di Stato di Renzi

AM: Ma perché abbiamo smesso coi film a episodi? Noi poi, che non c’abbiamo mai avuto il senso della struttura narrativa.

 

MM: I Complessi, i Mostri, Quelle strane occasioni, I nostri mariti, Le vacanze intelligenti... Alcuni epocali, altri malriusciti, i film a episodi erano ecosostenibili, poco ambiziosi, a partire da quelli degli anni Cinquanta “messi assieme per lo più da personaggi di provincia vogliosi di calare a Roma, gente che aveva fatto qualche soldo magari vendendo le jeep della guerra abbandonate dagli americani” scrive sempre Sonego. “E combinavano i film con una catena di sant’Antonio di nomi di persone che non conoscevano: ‘Io sono amico di Sonego, io conosco De Concini’. Si partiva da un’inquadratura, un’idea, una vacanza, una frase ascoltata. Sonego non usciva mai senza piccoli registratori che nascondeva nei tavoli dei bar, poi arrivava a casa e sbobinava, anzi faceva sbobinare alla moglie.

 

AM: Allegra Rossignotti, che già traduceva i grandi russi dell’Ottocento, dunque felicissima di cambiare registro.

 

MM: Il tutto in un ex studio di psicanalista sul Lungotevere. “Uno psicologo-guru che coordinava con i suoi pazienti delle strane sedute di psicanalisi di gruppo”, scrive Sanguineti. Sarà Fagioli? Che karma, comunque. Uno psichiatra (Risi, già in servizio al manicomio di Voghera) come regista, e sedute di sceneggiatura sul lettino. Però che bel modo di lavorare a questi episodi. Si facevano le ricuciture tra le storie, come stiamo facendo un po’ noi, qui. Si economizzava (“un attore un film gratis non te lo fa, un episodio sì”). Era un cinema di frammenti, di osservazione. Anche oggi, ci sarebbero tante storie già lì, pronte: io se fossi uno sceneggiatore farei subito un bel film per esempio a Fiumicino: un episodio col corteo di politici nuovissimi, c’è il vicepresidente del consiglio, e almeno un ministro, con codazzo di fotografi e montatori e social media manager, vanno a girare il video dell’aereo di Stato di Renzi. Secondo episodio: su un’altra pista c’è un altro ministro che si fa foto su un cacciabombardiere, vestendosi con un giubbotto militare, mentre per partire per il suo vertice internazionale utilizza poi giustamente un Falcon come tutti.

 

Nel terzo un custode esodato Alitalia organizza proficuamente a pagamento un set su questo Falcon per tutti quelli che si vogliono far foto su Instagram sul volo privato, con gli hashtag #officeforaday. E tutto intorno le hostess che cambiano continuamente uniforme data la frequenza dei cambi di proprietà: e metti il burqa e togli il burqa.

 

Oggi la spiaggia della Raggi sarebbe perfetta per un “Poveri ma belli” tatuato e populista, col beach-volley e i selfie con l’asta

Ci sono tanti risiani insospettabili. Sai che Paolo Mieli sa “Il Vedovo” a memoria? Anche il sublime Francesco Vezzoli

AM: Io glielo leverei quer burqa; la più bella comunque era quella “Qatar”, con le calze verdi e il guanto fetish.

 

MM: Sudavano tantissimo. Chissà che ne pensa l’emiro, vicino di residence di Risi.

 

AM: Comunque Roma sarà anche rimasta indietro ma come vedi resta fonte di grande ispirazione. Quanto Dino Risi c’è nei diecimila metri quadri di ombrelloni e piante di plastica sotto Ponte Marconi chiamati “Tiberis”? “Come a Parigi, come a Berlino, anche a Roma si potrà prendere il sole sulle rive del fiume d’estate”, lo dice Raggi. Qui si riapre un ciclo, è il grande ritorno del Tevere balneare, come in “Poveri ma belli” (1957), il primo successo di Dino Risi, il film che gli spiana la carriera cinematografica e apre una trilogia epocale (“Poveri ma belli”, “Belle ma povere”, “Poveri milionari”). Molte scene sono girate sul barcone “der Ciriola”, luogo di divertimento popolare dei romani che non potevano permettersi neanche la gita a Ostia in corriera; c’è Renato Salvatori che fa il bagnino in canotta, i pischelli che si tuffano a raffica nel Tevere, Marisa Allasio supersexy in bikini, Maurizio Arena; è il film che lancia il fenomeno dei “fusti” che sono un’invenzione di Risi, la risposta maschile e metropolitana alle “maggiorate” che facevano quasi sempre le contadine, come in “Riso amaro”, come in “Pane, amore e fantasia”; qui invece siamo sotto Castel Sant’Angelo, dov’era ancorato “er Ciriola”; lo distruggerà un incendio nel 1970 e rimarrà lì a mollo come uno spettro, fino ai primi anni Novanta, quando una piena del Tevere lo porterà via per sempre, e neanche una Celine Dion a rievocare questo nostro Titanic neorealista; oggi “Tiberis” perfetto per un “Poveri ma belli” tatuato e populista, col beach-volley, i selfie con l’asta, l’erba sintetica; i coatti stesi al sole sotto il traffico di Eur-Marconi, niente tuffi nel Tevere ma doccia tra le querce di sughero, col distributore di bibite rotto, il cordone di vigili urbani intorno, casomai tornassero i rom appena sgomberati (pare di no perché Raggi ha fatto l’accordo con “Zorro”, capo dei rom); e qui di nuovo la formidabile preveggenza di Dino Risi, perché c’era già tutto in “Giovani e belli”, l’ultimo film del 1996, una specie di remake del triangolo amoroso Arena-Salvatori-Allasio, anche lì con barcone sul Tevere; film da dimenticare e in effetti dimenticato, con due giovani attori cani e una sceneggiatura sgangherata aggrappata alle chiappe di Anna Falchi, ma senti qui: nel film la Falchi è una zingara, si chiama “Zorilla” (Zoro e Zorilla!), i due fratelli coatti che abitano sul fiume si innamorano di lei, alla fine si sposano tutti e tre in un matrimonio alla Kusturica con Ciccio Ingrassia re dei Rom vestito come Willy Wonka. Sarebbe una rom-com balneare perfetta per l’Italia sovranista, la riconciliazione tra zingari e Salvini, tanta decrescita felice. Insomma anche “Poveri ma belli” una miniera. E poi Renato Salvatori e Maurizio Arena erano già “metrosexual”, non hanno i muscoli plasmati dal lavoro nei campi o nelle fabbriche, anche perché non fanno quasi niente, sono fusti perché pensano solo a trombare; erano già gli italiani di “Uomini e donne” e “Temptation Island” (“un fusto come me è sprecato pe’ anda’ a lavora’”, dice Maurizio Arena); solo invece che a Ibiza stanno dal Ciriola.

 

MM: Maurizio Arena era stupendo: il jock di Roma sud, simmetrico del twink pigneto pasoliniano. Entrambi i tipi si saranno incontrati dal Ciriola, forse con cortocircuiti e interazioni. Ma Arena è la versione vitaminizzata del paraculetto: un topos molto romano, il coatto muscolare, filone che poi passa tutto nello storytelling di borgata, direttamente in Walter Siti e nella sua saga atletica-periferica. Arena si chiamava in realtà Maurizio Di Lorenzo, ma aveva preso il cognome da una sua amante milf, Anna Arena. Ragazzo della Garbatella, attrae e conquista tutti i blasoni italici e europei in una specie di Vacanze romane hardcore. E’ superdotato, o almeno così si dice, in un’epoca non verificabile (superdotato lo scià di Persia, superdotato Porfirio Rubirosa): oggi ci sarebbero i selfie e le dickpick e gli screenshots. Con Titti di Savoia, figlia del Re di maggio, vanno a vivere a Casalpalocco, in regime molto alcolico. Cacciatore in utroque, direbbe Gadda: non contento di aver sedotto la principessa d’Italia, ha un amore neorealista e interclassista anche con la meglio dama romana, Domietta del Drago, che è poi la Desideria di Fratelli d’Italia e sé stessa in Vacanze di Natale (“che le regalo alla principessa del Drago?” si chiede Christian De Sica. “La borsa dell’acqua calda o il backgammon?”). Arena si aggirava in fuoriserie dicendo “ahò, ho appena scaricato ‘a principessa”, gratificando così tutte le povere ma belle di quei confronti nobiliari. E i più araldici: ma si riferirà all’infanta d’Italia (nobiltà bianca) o di Fratelli d’Italia (nerissima)? Muore a soli quarantacinque anni per crisi renale, col fiasco accanto al letto, e vasto funerale popolare alla Garbatella natìa. Oggi gli hanno intitolato un parco, dietro la trattoria der Moschino. Gli ultimi anni faceva il santone e il guaritore, sempre a Casalpalocco.

 

AM: Sì ma non la staremo facendo troppo lunga con questa epopea-Risi? Qui ci sono i problemi del paese reale.

 

MM: Io andrei avanti. E’ estate. E ci sono tanti risiani insospettabili. Sai che Paolo Mieli sa Il Vedovo a memoria? Anche Francesco Vezzoli.

 

AM: Facciamo un Festival all’Aldrovandi. Fondiamo un partito.

 

MM: Le roccaforti dei Parioli e dell’Argentario son già nostre. Ma siamo seri, piuttosto. Ho provato a sentire Marco Risi. Gli ho scritto su whatsapp. “Buongiorno, stiamo facendo una cosa a puntate su suo padre, ci piacerebbe intervistarla”. Mi ha dato una risposta molto risiana: “State andando così bene, perché rovinare tutto?”.

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