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Viva Risi, sorriso d'Italia

Michele Masneri e Andrea Minuz

Uno spettacolare esame di coscienza collettivo senza grilli parlanti. Vita e opere del formidabile genio che con il cinema mise il paese sul lettino. Scorribande a quattro mani sulle strade del “Sorpasso”

Siamo qui, il solito lombardo e il solito romano, che sfrecciamo in macchina dai Parioli all’Aurelia e ci lasciamo alle spalle la nostra amata Fiumicino per andare verso Civitavecchia e Grosseto e Castiglion della Pescaia, e poi e ancora su, fino a Calafuria, “a mangiare una zuppa di pesce da impazzire”. Perché Dino Risi ci ha lasciato un’estate di dieci anni fa e non c’è altro modo di ricordarlo, non c’è altro modo di raccontare l’intelligenza, la leggerezza, l’incontenibile mobilità dei suoi film, se non con una scorribanda on-the-road tra Roma e la Versilia del “Sorpasso” e “Una vita difficile”, per andarcene poi a Milano, a posare un fiore o un bigliettino o farci un selfie (vedremo) ai piedi della Torre Velasca del “Vedovo”, dove ci vorrebbe una solenne targa di marmo con la corona di fiori e il tricolore: “Qui, in un appartamento all’ultimo piano, vissero felici Elvira e Cretinetti”.

     

Ci ha lasciato un’estate di dieci anni fa e non c’è altro modo di ricordarlo, se non con una scorribanda tra Roma e la Versilia 

  

  

MM Per i giornalisti, una perdita devastante. D’estate, quando non si sapeva che scrivere, c’era sempre l’intervista a Risi, coi suoi ricordi le sue memorie: lui sempre un “gigante”, al residence Aldrovandi, ai Parioli, con affaccio sullo zoo, dove doveva rimanere una settimana ed era rimasto per sempre, “per comodità”, come diceva , “perché se mi si rompe un rubinetto non devo neanche chiamare l’idraulico”. Gassman depresso lo andava a trovare, e c’era sempre la solita storia dell’aquila. “C’era un’aquila su un albero. La fissavamo, muti. Gassman: quell’aquila sono io. Anche io sto seduto per ore su una poltrona. Fermo, a guardare un muro”. C’erano gli aneddoti con Anita Ekberg (“tu piccolo uomo, grande stronzo”, quando lui le manda una copia delle sue memorie. Mario Soldati arrotolato in un tappeto per spiare il suo amore con Alida Valli. Il suo essere “un fallito di successo”). L’intervista estiva a Dino Risi era un classicone, un format, come quella a Paolo Poli e poi a Carlo Verdone. Era comoda. Mettevi la monetina. Che faceva? Leggeva, non rivedeva assolutamente mai i suoi film (detestava). Amava soprattutto Philip Roth, ma anche John Fante e Carver. Faceva le uova al tegamino nel residence. Non gli era passata la libido (“i sensi si sviluppano invecchiando, si torna come i bambini di tre anni, il massimo della pulsione sessuale secondo Freud. Le donne sono sempre state un’ossessione per me” disse a Giancarlo Dotto). Aveva provato tutta la vita a fare un romanzo, ma aveva rinunciato buttando via tutto e col rimpianto “di non incontrare una donna in treno e dirle che l’autore del libro che leggeva ero io”.

  

AM Tanto il romanzo c’è già, perché Risi ci ha dato il Grande Romanzo Italiano che la letteratura ci ha negato. C’è tutto. L’Italia povera ma bella e quella della “marcia su Roma”, l’Italia del “boom” e del Festivalbar , l’Italia dei “mostri” e di “Miss Italia”, Peppino Di Capri, Rita Pavone, le spiagge, le decappottabili, Gassman vestito da donna che fa Maria Bellonci, Sordi ubriaco che sputa sulle automobili al lido di Viareggio, Manfredi in kimono giapponese sulle terrazze di via Toledo, c’è pure Lino Banfi commissario a Favignana già in orbita “Montalbano”; c’è il ’68 muto di “Straziami ma di baci saziami”, la liberazione sessuale di “Vedo Nudo” e “Sessomatto”, gli anni di piombo e l’ideologia furiosa di Tangentopoli (“Caro papà”; “In nome del popolo italiano”), c’è il tuo amato Pozzetto “fotogenico” e c’è pure Beppe Grillo, con quel film dell’85, “Scemo di guerra” che “gli fece capire quanto era cane come attore”, come diceva Risi, e forse gli spianò la strada al “Vaffa day” (“è più attore oggi che fa politica di quando tentava di far l’attore, ha intuito che dire le cose da bar è un’attività redditizia”, sempre Risi, in un’intervista del 2007). Insomma, come si fa a capire qualcosa di questo paese senza passare dai suoi film? Poi c’è la formidabile vita di Dino Risi, che sembra un film di Dino Risi.

   

Le sue massime, poi, come quella celeberrima su Moretti (“spostati che voglio vedere il film”) degne del miglior Billy Wilder 

  

MM Il padre era amico e medico di Mussolini, che infatti ricorre spesso nei suoi film. Al liceo va al Berchet, dove un giorno la più bella ragazza della scuola è venuta a prendere da un giovane avvocato, Carlo Ponti. Risi si era laureato in Medicina, poi la specializzazione in Psichiatria, ma non gli piaceva la vita al manicomio di Voghera. E un giorno bisognerà riflettere su quanti talenti capitali Voghera abbia prodotto: Valentino (Garavani), Arbasino (Alberto), Angiolillo (Maria): un tempo abitavano tutti vicini, du côtè di piazza del Popolo. Forse bisognerebbe studiare il microclima e la dieta come fanno per quelle popolazioni giapponesi o sarde sanissime e vecchissime. Insomma dopo il manicomio a Voghera, Risi fa il giornalista, critico cinematografico alla Nazione e poi a Domus. Poi un giorno entra nella bottega antiquaria di Schubert e incontra il regista Lattuada, che gli dice, che hai da fare? Niente, e se lo porta a Roma a fare l’assistente di Soldati sul set di “Piccolo mondo antico”. Un po’ tipo Gassman con Trintignant. Fa l’assistente prima di Lattuada e poi di Soldati. Tutti e due non romani. “Volevo bene a Lattuada perché era uno dei pochi che non parla male del prossimo”, diceva, e si capisce che uno così non poteva essere romano. Lattuada era “un milanese tutto preciso preciso con dei baffettini”, così lo descriveva Rodolfo Sonego. Era detto “la piccola vendetta lombarda”. Secondo Sonego Risi è “un medico, un intellettuale lombardo, uno scettico”.

    

AM La linea dell’illuminismo lombardo che comincia con Manzoni, l’abate Parini, e prosegue con Gadda, Arbasino… Risi.

  

MM E anche Aldo Busi, direi (che è di Montichiari, dove c’è un famoso ospedale psichiatrico, tra l’altro).

  

AM I mirabolanti effetti della nostra amata linea lombarda sulla cultura nazionale: niente irrazionalismo e pensiero magico, ma scetticismo radicale; niente pescatori, contadini, accattoni e piagnoni neorealisti; niente Italia pittoresca, arretrata-ma-vera che resiste intatta fino alle Rohrwacher sisters. Nei film di Risi i pecorari e i contadini non sono depositari di niente, se non delle pecore, come quelle che passano davanti a Sordi mentre ubriaco in “Una vita difficile” urla “un giorno sentirai parlare di Silvio Magnozzi!”. Risi diffida del “messaggio”, degli “attori presi dalla vita”, delle “avanguardie”, delle “sperimentazioni”. Per farci vivere un po’ di “nausée” gli basta Domenico Modugno: “Aho’ a me quest’uomo in frac me fa impazzire, perché pare ’na cosa da niente, e invece c’è tutto: la solitudine, l’incomunicabilità e quella cosa che va di moda oggi, l’alienazione”, come dice Gassman nel “Sorpasso”. Le sue massime, poi, come quella celeberrima su Moretti (“spostati che voglio vedere il film”) degne del miglior Billy Wilder: “Giriamo un’inquadratura fuori fuoco che voglio vincere l’Oscar per il miglior film straniero”

  

MM Bel regista, Antonioni, “c’ha ’na Flaminia Zagato che sulla fettuccia de Terracina m’ha fatto allunga’ il collo”. Per Risi tutta l’alienazione passa non tra l’uomo e la donna, ma tra l’uomo e la sua macchina. Il suo rapporto con la donna è facile e risolto, lui ama riamato. Ama talvolta le stesse donne dell’Avvocato Agnelli (Ekberg), cui peraltro assomiglia, capello araldico-riccio poi candido versione renard argenté, erre moscia, concezione forse aristocratica dell’esistenza. Lui però le macchine non le produce, le guida. E le filma. Tutti i film di Risi sono enormi product placement d’automobili. La macchina segnala ogni passaggio di status meglio che in “Mad Men”. “Complimenti per l’automobile” dice in “Una vita difficile” Elena al suo corteggiatore che è scomparso per tre anni, e creduto morto (son tempi di guerra). E’ una Topolino, l’entry level dell’esistenza maschile, ma è pur sempre un’auto. E si capisce che la storia precipiterà quando lei capisce che l’auto, pur se Topolino, non è sua, bensì del giornale (“Il lavoratore”). La cilindrata è il prezzo da pagare per il successo, si vende lo spinterogeno al diavolo. Quando Sordi esce dal carcere, il traditore Franco Fabrizi si presenta con una macchinona fiammante. Quando anche Sordi venderà l’anima al commendatore (che era una trasposizione di Rizzoli, il cumenda per eccellenza), per prima cosa gli usa la sua macchina (e viene ripreso dalla moglie). La punizione è che torneranno a casa a piedi.

  

AM “La macchina ha ormai preso il posto della laurea”, diceva Longanesi, e “la morte spaventa gli italiani a letto, in guerra, in mare, ma in auto essi non credono di morire. L’autostrada è il loro Olimpo, la velocità la sola sensazione che li ispira”.

  

MM “Se non ci si aiuta tra noi spider”, è Arbasino, “La bella di Lodi”. Son quegli anni lì, l’autostrada del sole, l’amore tra un’ereditiera dei formaggi e un garagista. Oggi dovrebbero esserci tante pellicole sugli amori nati sugli Italo e i Frecciarossa, nella carrozza del silenzio. Ma niente. Comunque, tornando a noi: anche il rapporto con la suocera lombarda sempre col ciglio alzato – grande topos risiano-sordiano – viene risolto in articulo mortis presentandosi con il top della scala sociale automobilistica: la decappottabile americana. Sempre in “Una vita difficile”. Lui l’ha delusa tutta la vita, lei lo voleva geometra a Cantù-Cermenate, lui voleva fare il giornalista e il romanziere, lei voleva una figlia sistemata con un latifondista locale, lui nun cià ’na lira. Lei infine muore e lui arriva sul sagrato della chiesa tutto in nero e con una enorme, assurda decappottabile americana, di cui aziona subito la capote. Quando c’è la decapottabile e americana c’è sempre qualcosa sotto, come nei baci a occhi aperti della vecchia Hollywood: nei film di Risi la decapottabile americana è il prezzo da pagare per la colpa. Infatti porta poi tutta una serie di lapsus: non funziona, è una finzione, come in un film quasi dimenticato di Risi, “Il giovedì”, dove Walter Chiari padre separato e fallito prende in prestito una decappottabile per far colpo sul figlio che non vede da anni (poi l’auto lo lascerà naturalmente a piedi, di qui una serie di disastri). “Beve più de mia socera”, l’aveva avvertito il garagista con nesso psicanalitico. L’auto americana e il guidatore italiano non si prendono. Come commedia italiana e spettatore americano.

  

AM E’ che non si capiscono. Perché la commedia all’italiana si basa su due invenzioni che sono una rivoluzione copernicana: sono commedie in cui si muore più o meno sistematicamente (si muore nei “Soliti ignoti”, nel “Vedovo”, nel “Sorpasso”, ne “La grande guerra” in “Divorzio all’italiana” ne “Lo scopone scientifico” … ); poi hanno trame che ovunque sarebbero drammatiche, ma da noi diventano commedie. Morte, sconfitta, umiliazione, cattiveria. Eppure si ride. Vallo a spiegare a Chiasso.

  

MM Infatti Dino Risi in America lo capiscono pochissimo. L’anno scorso a San Francisco son stato a una retrospettiva, nel Castro Theatre, quello con l’organetto che suona il motivetto del film del 1936 e poi scompare sotto il palco, e poi a vedere “Il sorpasso”, il pubblico misto americano-italiano rideva proprio separatamente, come se vedessero due film diversi. In generale, gli americani abbastanza costernati dal livello di cattiveria. Ridevano molto solo nei gag più banali: quando Trintignant rimane chiuso al cesso dell’autogrill. Tipo buccia di banana.

   

AM Col “Vedovo” anche peggio: un fallito, umiliato costantemente dalla moglie, desidera per tutto il film che lei muoia e alla fine progetta un complicato uxoricidio. Prima della commedia all’italiana era la trama di un noir alla “Double Indemnity”. Se la raccontavi a un produttore dicendogli, “però è un film comico”, ti mandava via a calci. Oggi sarebbe istigazione al femminicidio. All’epoca invece era l’unico meccanismo possibile per raccontare l’Italia e gli italiani. Se la commedia all’italiana è stata uno spettacolare esame di coscienza collettivo, la grandezza di Dino Risi è di non averci mai messo il grillo parlante, l’ideologia didascalica, il “messaggio”, la condanna del progresso, del successo, dei soldi, della borghesia (come pure capiterà ogni tanto a Monicelli, a Scola…). In “Una vita difficile”, lui e Sonego costruiscono tutto il film su un personaggio di sinistra, ma è un personaggio di sinistra che piace a tutti, in cui si riconoscono tutti, anche perché, come diceva Sonego, “è un personaggio che perde continuamente il controllo del reale”.

  

MM Il tema della “Vita difficile” (che è poi quasi l’autobiografia di Sonego, lui aveva fatto davvero il partigiano, combattuto tra i monti. C’è tutto nel magnifico libro di Tatti Sanguineti) è poi quello del coerente malgré tout. L’idealista tutto d’un pezzo, in un paese sbagliato. In altre pellicole gli andrebbe meglio, in “Casablanca” Victor Laszlo scappa con Ingrid Bergman e trova un Humphrey Bogart amico che si sacrifica e perde tutto per lui. A Roma Sordi trova invece Franco Fabrizi che va a prendere un cappuccino.

  

AM Attentato a Togliatti. Esattamente 70 anni fa. Devono occupare la Rai insieme. Sordi lo arrestano, Fabrizi si defila. La battuta è epica: “Ma come, c’è ’a rivoluzione e te vai a prende’ un cappuccino al bar?”. “Una vita difficile” siamo noi. Il film era un po’ una follia perché era costruito attorno a un Sordi idealista, di sinistra e partigiano, anche se a tratti veniva fuori il vero Sordi, come quando passa la brigata dei suoi compagni che salgono in montagna, lui vorrebbe unirsi, apre la finestra, li chiama ma poi torna a letto, “‘mazza che freddo, io me rificco”. “Un film con Sordi che credeva in qualcosa”, diceva Risi, “mentre nei suoi film, come anche nella vita, non credeva mai in niente”. Invece funzionava. I critici marxisti storsero il naso. Sordi diceva che dopo il film Togliatti l’aveva abbracciato: “Anche se lei non lo sa, è uno di noi; ne vorrei cento come lei nel mio partito”, insomma il solito problema della leadership del Pd. Ettore Scola parte da lì per fare “C’eravamo tanto amati”, che è praticamente uno spin-off. “Coi miei film sono molto severo” diceva sempre Risi, “ma ‘Una vita difficile’ tiene ancora bene”. Ha ragione. Poche cose fanno capire l’Italia come la cena a casa dei marchesi Rustichelli, la sera del referendum monarchia o repubblica.

  

L’intervista estiva a Dino Risi era un classicone. Era comoda. Che faceva? Leggeva, non rivedeva assolutamente mai i suoi film 

  

MM Quella è una scena meravigliosa. Silvio Magnozzi e la moglie, figlia del nord produttivo, crollata come tanti al fascino tagliatellaro romano (qui ci si immedesima), finisce a fare la fame. Vagano di trattoria in trattoria, ultima “L’assassino”, dove nessuno gli fa più credito, son tre giorni che non mangiano, finché non incontrano il marchese Capperoni, vecchio cliente della mamma di Elena (la suocera lombarda). Che sta sulla soglia di un portone ad aspettare qualcuno di conosciuto per portarlo a cena dai principi Rustichelli (poiché sono tredici a tavola, i Rustichelli). Qui, i Rustichelli, famiglia piemontese ed evidentemente collusa col fascismo, attende stravolta e fiduciosa l’esito del referendum a tavola, con la vecchia principessa vestita tipo royal baby che si lamenta “che momenti sta passando sua Maestà”, e tutti i cugini e i parenti, chi storpio, chi cieco, chi con accento tedesco, vituperano molto Sordi-Silvio Magnozzi che naturalmente fa una gaffe dopo l’altra, subito proclamandosi partigiano, mentre un cugino apostrofa la categoria: “canaglia che non ha creato altro che confusione”. Quando arriva il risultato del referendum la principessa ha un coccolone.

  

AM “La mamma, la mamma… si sente male la mamma!”

  

MM E Sordi e la moglie rimangono soli a bersi lo champagne, mentre parte l’inno di Mameli.

  

AM Un capolavoro. Filmare gente che parla a tavola è l’incubo di ogni regista, tutto si regge sul ritmo delle battute e i primi piani. Risi la trasforma in una delle scene più belle del cinema italiano. Roba da Lubitsch e Billy Wilder.

  

MM Il Capperoni poi finisce a fare San Matteo come comparsa a Cinecittà. Ci sono sempre i nobili, decaduti o no, nei film di Risi, come un residuo tarlato del passato. Ci sono qui, ci sono nel “Vedovo”, col marchese Stucchi nel ruolo di tuttofare. Ci sono nel “Sorpasso” (piccola nobiltà degli zii, il rapporto col fattore)… Son sempre indissolubilmente fascisti. Ci sono in quell’incredibile episodio dei “Nuovi mostri”, col principe Giovan Maria Catalan Belmonte che si aggira per Roma in cerca di una riunione con delle zie principesse per discutere dello scisma di Lefebvre, a bordo di una vecchia Rolls bianca, ritenendo i monumenti a Mazzini dedicati a Mussolini, e tira su un poveraccio vittima di incidente stradale a cui propina la sua storia. “Fui allevato da cinque nurse di cinque lingue diverse, cinque puttane scatenate che mi iniziarono all’erotismo satanico”. “Poi l’8 settembre scavalcai le linee nemiche per andare a trovare mammà che era dama di corte della regina scappata a Bari, naturalmente”. Anche qua, la storia d’Italia sullo sfondo di un ubriacone (Sordi ci teneva a fare spesso la parte di ubriaco, è una di quelle che gli riesce meglio). Secondo Sonego, Risi aveva la capacità di smitizzare le cose “dal punto di vista ideologico”; “raccontava senza sottolineare quei passaggi che avrebbero potuto sembrare i più significativi e che funzionavano proprio come se niente fosse. Il pubblico li raccoglieva lo stesso”.

  

  

Si era laureato in Medicina, poi la specializzazione in Psichiatria, ma non gli piaceva la vita al manicomio di Voghera

  

AM Perché Risi si mette al servizio della storia, dunque dei personaggi, dunque del pubblico. La regia non la noti, e non la noti perché è perfetta, tutto scorre con una velocità “americana”, più che “all’italiana”.

  

MM Beh, come naturalmente nel “Sorpasso”, si capisce tutto dell’infanzia di Trintignant, occhiofino, la zia, così proprio en passant, di passaggio, in macchina. Senza spiegoni. Accelerando.

  

AM “Il sorpasso” poi era un film scritto per Sordi, e questa cosa si vede perché Gassman lì recita come lui, lo imita, fa pure il “passetto”. Sordi rifiutò perché nella prima versione del copione moriva Bruno Cortona e Sordi diceva: “Questo è un film in cui faccio tutto io ma poi alla fine il merito se lo becca quell’altro”, cioè Trintignant. Se ne pentì per tutta la vita. Il suo grande rimorso cinematografico. Vent’anni dopo fa “In viaggio con papà”, che è il suo sorpasso senile, lui un Bruno Cortona invecchiato e ficomane, e Verdone, figlio buono ma scemo, introverso, ecologista. Film a suo modo magnifico, ma non è “Il sorpasso”. Che hanno saccheggiato in tanti. Ti viene in mente pure quando vedi “Rain Man”, anche lì in due in automobile, lo spaccone spavaldo che porta a spasso quello introverso e impacciato

  

MM E “Operazione San Gennaro”? E’ chiaramente il nostro “Ocean’s Eleven”. Con Totò, che Risi adorava, con quell’adorazione che solo i milanesi hanno per i napoletani. Da bambino Risi andava ogni giorno a vedere gli spettacoli di Totò al cinema-teatro Esperia, a Milano. Fecero solo questo film insieme. (Continua)

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