Un’immagine del film Crazy Rich Asians

L'Asia si porta bene al cinema

Antonio Talia

Oggi sono tutti pazzi per Crazy Rich Asians, ma il cliché dell’orientale infido è nato cento anni fa con “Il caso Brilliant Chang”. Ecco come, da Hollywood a Singapore, le nuove generazioni cercano di superarlo

Migliaia di fuochi d’artificio esplodono nella notte sullo sfondo della baia di Singapore mentre centinaia di invitati ballano a tempo: al cambio attuale la stanza più economica del Marina Bay Sands Hotel costa circa 500 euro a notte, ma per il matrimonio del rampollo Colin la famiglia Khoo – probabilmente la più ricca di tutto l’estremo oriente, e quindi tra le più ricche del mondo – non ha avuto problemi a riservare l’intero terrazzo e la leggendaria Infinity Pool, una piscina trasparente sospesa a 146 metri d’altezza, perché in effetti i Khoo controllano una parte della proprietà dell’albergo. E questo è solo l’inizio: in Crazy Rich AsianCrazy Rich Asianss, il film tratto dal bestseller di Kevin Kwan pubblicato nel 2015, in uscita nei cinema di tutto il mondo, incontriamo personaggi che lasciano migliaia di dollari di mancia al valletto incaricato di parcheggiare le loro Lamborghini e altri che sfoggiano gioielli da milioni e creazioni su misura firmate Carolina Herrera e Giorgio Armani, mentre si snodano le vicende di Rachel Chu, ragazza sino-americana catapultata d’improvviso ai vertici del jet-set singaporiano dal fidanzato Nicholas Young , e le macchinazioni della madre di lui, Eleanor, convinta che una semplice professoressa universitaria di dubbia origine non sia affatto abbastanza per un uomo che nel corso del film viene definito “il Principe Harry d’Asia”.

  

Il primo film ad alto budget con un cast completamente asiatico esce oggi nelle sale. Racconta una nuova classe di super ricchi

“Ho scritto il romanzo perché volevo presentare al pubblico nordamericano ed europeo una parte della società asiatica attuale”, ha detto Kevin Kwan nelle interviste successive allo strepitoso successo del romanzo, tradotto in 12 lingue e a cui sono seguiti due sequel. Adesso che il primo film ad alto budget con un cast completamente asiatico approda ai botteghini di tutto il mondo c’è da scommettere che le avventure delle famiglie Khoo, Chu e Young consacreranno a livello globale l’immagine dell’asiatico di successo, un’immagine che le nuove generazioni di Cina, Corea, Singapore, Hong Kong – come anche le seconde generazioni cresciute in occidente – sono sempre più desiderose di incarnare e di far conoscere. Eppure, mentre Crazy Rich Asians sta per trasformarsi in un blockbuster e un’attrice come Sandra Oh – la dottoressa Cristina Yang della serie tv Grey’sAnatomy – diventa la prima attrice asiatica nominata agli Emmy Awards, gli stereotipi sugli orientali si mostrano ancora drammaticamente resistenti, sia nella finzione sia nella realtà.

 

A giugno, l’attrice Kelly Marie Tran, che interpretava il personaggio di Rose Tico nel film L’Ultimo Jedi, ha cancellato il suo account Instagram dopo mesi di insulti razzisti online. “Moltissimi fan di Guerre Stellari di origine asiatica non hanno mai avuto un personaggio della saga nel quale identificarsi – aveva detto Kelly Marie Tran all’uscita del film – e sono orgogliosa di poterlo interpretare per loro”, ma il suo entusiasmo è stato stroncato dalla carica guidata da Paul Ray Ramsey, vlogger e celebrità della galassia dell’estrema destra americana, tanto che adesso l’unica descrizione presente nei profili di Tran recita “Spaventata, ma vado avanti lo stesso”.

 

Chang si trasferisce a Londra e coltiva la sua immagine di gentleman: maniere cortesi, capelli tirati indietro con la brillantina

Il dibattito sul ruolo dei personaggi asiatici nelle opere di intrattenimento – che si tratti di libri, film, fumetti o serie televisive – prosegue da tempo, e forse uno dei contributi più utili a inquadrare la questione è stato fornito da Arthur Chu con un articolo sulle serie tv targate Marvel pubblicato lo scorso anno dal Daily Beast, intitolato “Non sono il tuo ninja orientale: come il Marvel Cinematic Universe continua a deludere gli americani di origine asiatica”: “Daredevil è grandioso, ma se c’è una parte deludente dello show è quella con i ninja perché si tratta di una sottotrama nella quale ogni singolo personaggio asiatico è al servizio di una malvagia forza soprannaturale che lo trasforma in una macchina da guerra disumana. Sono ormai decenni che discutiamo di quanto sia sgradevole e dannoso trattare le culture asiatiche solo come un’ambientazione di cartapesta, pronta per l’esplorazione dell’eroe bianco di turno, di quanto sia irritante sapere che quando sullo schermo appare qualcuno con i tuoi stessi tratti somatici si rivelerà immancabilmente o un oggetto sessuale esotico oppure parte di un esercito di ninja malvagi privi di personalità che se ne vanno in giro nelle loro maschere shinobi”, scrive Chu. “Nel mondo di Daredevil ogni personaggio con gli occhi a mandorla che incontri è l’adepto di qualche complotto mistico, e quindi la cosa più saggia da fare consiste nell’abbatterlo prima che ti pianti nella schiena il suo pugnale avvelenato. Intendiamoci, adoro una bella avventura a base di kung fu come chiunque altro, ma tutto quello che chiedo agli autori è di trattare i personaggi asiatici con lo stesso rispetto concesso alle origini irlandesi e alla fede cattolica di Daredevil, magari ripensando in maniera più intelligente il cliché della ‘setta di ninja malvagi’”.

 

Che influenza hanno queste rappresentazioni stereotipate sulla nostra percezione del quotidiano? Quante volte ci siamo trovati a girare tra le zone cinesi delle nostre città pensando ai film di Bruce Lee o agli intrighi di Grosso Guaio a Chinatown? In un’epoca in cui Kim Jong-un possiede ordigni atomici e la Cina si erge a difensore del libero scambio, interpretare attraverso i cliché la realtà di quella che rimane l’area economica più dinamica del pianeta può rivelarsi pericoloso. La fiction di genere e il giornalismo approssimativo forgiano la nostra visione del mondo molto più in profondità dei saggi scientifici, quindi scambiare il dittatore di Pyongyang per un cattivo di James Bond o la leadership cinese per una cospirazione di gialli alla conquista del mondo – quando invece si tratta di attori perfettamente razionali – è una scorciatoia mentale che tutti quanti abbiamo intrapreso almeno una volta.

 

Il fatto è che questi stereotipi hanno un luogo e una data di nascita precisa. Risalgono esattamente a cento anni fa e forse, proprio adesso che ne ricorre il centesimo anniversario, è venuto il momento di raccontare come si sono radicati nella mentalità occidentale. Bisogna tornare indietro nel tempo, quando tra i vicoli di Limehouse e i teatri dell’East End scoppia quell’irripetibile concentrato di malafede, curiosità sessuale, ipocrisia post-vittoriana e xenofobia che da Londra irradierà le sue ondate di paranoia al resto dell’immaginario di Europa e Americhe. Alcuni lo hanno definito “L’affaire Dreyfus degli asiatici”. Per i giornali dell’epoca era semplicemente “Il caso Brilliant Chang”. L’intrigo comincia con un ballo che mescola alta società, reduci di guerra e il sottobosco bohémien della Londra che sta per scoprire il jazz.

 

“Le madri dovrebbero tenere le loro figlie il più lontano possibile da Chinatown, dalle lavanderie cinesi, dagli uomini gialli”, scriveva la stampa

La sera del 27 novembre del 1918 il tabloid Daily Sketch organizza alla Royal Albert Hall il “Victory Ball”, descritto come “il primo grande evento di società organizzato a Londra dalla firma dell’armistizio”. I tedeschi sono sconfitti, nonostante il razionamento di cibo e carburante Londra può tornare alle sue notti più discrete di quelle parigine, ma non meno lascive. Lady Diana Manners, la musa del circolo di aristocratici noto come The Coterie, guida la parata che apre le danze travestita da Britannia, con tanto di elmo, tridente e scudo con l’Union Jack. Ha 26 anni; è considerata la donna più bella dell’epoca. Mrs. Lionel Harris è vestita a Stelle e Strisce: rappresenta l’America. Lady Elsie Duveen indossa un bustino tricolore che le copre il seno a stento, ma visto il clima della serata nessuno si stupirebbe troppo se lo togliesse: impersona la Marianna francese. Ci sono mutilati e uniformi, vedove e infermiere. Ci sono attori, artisti di scena, prestigiatori. E c’è Billie Carleton, 22 anni, capelli alla maschietta, appena promossa da ballerina del coro a primadonna della commedia The Freedom of the Seas, in rassegna all’Haymarket Theatre. Il corrispondente del Syracuse Herald la descrive come “la classica bellezza di scena che finisce sposata a un milionario o un aristocratico di ramo cadetto, sembrava che ogni uomo volesse ballare con lei”: Billie è arrivata al ballo in compagnia di Lionel Belcher, Reggie De Veulle e altri attori; danza scatenata fino alle tre del mattino, quando decide di condividere un taxi con quattro amici. Qualcuno va a concludere la nottata al 43th Club di Soho, mezzo night/mezza alcova con stanze private a noleggio, non ancora famigerato per le feste sfrenate degli anni Venti. Billie chiede di essere lasciata al suo alloggio alla Savoy Court Mansions, una dependance attaccata al Savoy Hotel dove vive mantenuta a turno da tre uomini d’affari della City. Alle 11 e 30 del mattino seguente la cameriera entra nella stanza per le pulizie la trova morta nel suo letto. Sul comodino a fianco c’è una scatoletta d’oro piena di cocaina.

 

Il processo per la morte di Billie Carleton si conclude nell’aprile successivo, i giudici impiegano un quarto d’ora per emettere la sentenza: Reggie De Veulle, l’amico attore e stilista di Billie Carleton che le aveva fornito la cocaina, viene condannato a otto mesi di prigione per omicidio colposo. Con lui subisce una condanna a cinque mesi per possesso di stupefacenti anche Ada McLashan, una scozzese sposata con il cinese Yu Lau Ping che gli investigatori non riescono a inchiodare pur considerandolo una figura di primo piano nel panorama dello spaccio. Stampa e scrittori piombano sul caso come belve affamate: il commediografo Noel Coward, che aveva conosciuto Billie sui palcoscenici londinesi, inserisce alcuni elementi della vicenda nel dramma The Vortex; Agatha Christie scrive The Affair at the Victory Ball, in cui la giovane attrice amante di un lord muore di overdose. I giornali si scandalizzano per l’avvento della droga nel giro degli artisti e degli aristocratici più scapigliati, si buttano a capofitto su particolari scabrosi come la passione di De Veulle per il travestitismo, ma soprattutto lanciano una campagna moralizzatrice che bersaglia la comunità asiatica: “Un circolo di drogati. Moglie di un cinese finisce in prigione: era lei la sacerdotessa di riti blasfemi”, titola il Times. L’Evening Standard: “Le ragazze bianche ipnotizzate con la droga dagli uomini gialli”. E in prima fila c’è naturalmente Sax Rohmer, ex ghostwriter di varietà che cinque anni prima, con il successo immediato del romanzo The Mystery of Dr. Fu Manchu, aveva inventato la figura del diabolico arcicriminale asiatico pronto a distruggere la civiltà occidentale.

 

Man mano che il processo per la morte di Billie Carleton si sviluppa, Rohmer intuisce che è il momento di abbandonare gli improbabili complotti del Dr. Fu Manchu e sfruttare il clima del momento e gettare in pasto all’opinione pubblica il perfetto cattivo asiatico che la stampa ha già portato alla ribalta come principale sospetto: si fa chiamare Brilliant Chang, è un imprenditore di successo che possiede diversi ristoranti cinesi, ma – anche se a suo carico non è stata ancora prodotta nessuna prova – per tutti è ormai l’Imperatore della Droga di Londra. Rohmer lo immortala istantaneamente in un r omanzo intitolato Dope - A Chinatown Story.

 

Ora, chiariamolo subito, Chang non è innocente. Nato intorno al 1886 con il nome di Chen Bao Luan forse a Canton, più probabilmente a Shanghai, viene da una famiglia di imprenditori, parla diverse lingue e ha studiato Chimica. Nel 1913 è approdato a Birmingham, dove ha aperto un ristorante, ma nel 1917 arriva a Londra e cambia il suo nome in Brilliant Chang. Abita nella zona dei docks dell’East End popolati dalla comunità asiatica, ma intuisce subito che anche se ai britannici piace molto la cucina cinese non amano andarla a consumare a Limehouse, dove sarebbero circondati da facce gialle, così decide di aprire il suo New China Restaurant al numero 107 di Regent Street, a Soho. Il ristorante è un successo immediato, Chang vince persino un appalto di fornitura con l’Ammiragliato Britannico, e intanto coltiva la sua immagine di gentleman, tutto maniere cortesi, capelli tirati indietro con la brillantina ed eleganti cappotti con il collo di pelliccia. In effetti, i primi sospetti su di lui ricadono proprio l’anno del trasferimento a Londra, quando la polizia gli sequestra una lettera che sembra alludere al traffico di oppio, ma la droga non viene mai trovata. Intanto Brilliant sta applicando alla droga la stessa intuizione imprenditoriale dei ristoranti: artisti, ballerine e nobili londinesi non vogliono arrivare fino ai docks per comprarla, così la rete di spacciatori sviluppata da Chang – che comprende Reggie De Veulle, Ada McLashan e molti altri comprimari del demi-monde dell’epoca – la ritirano al New China o al Palm Court Club che l’imprenditore ha aperto proprio di fronte al 43th, per poi rivenderla ai clienti. L’oppio arriva dalla Cina, la cocaina dal Sudamerica. Il Chang che parla cinese ritira la droga ai moli di Limehouse dai marinai suoi connazionali disposti ad arrotondare con un secondo lavoro da corriere ogni volta che attraccano a Londra, mentre il Chang perfettamente integrato nella società britannica la trasporta e distribuisce nel West End bianco e rispettabile. E la domanda di droga sembra non finire mai, perché prima del Defence of the Realm Act del 1916 in Gran Bretagna i preparati a base di oppio e cocaina erano perfettamente legali: anche se oggi sembra difficile da immaginare, fino a quell’anno era possibile andare da Harrod’s e comprare una kit siringa ipodermica+soluzione di cocaina o morfina “da inviare ai vostri cari al fronte”, come recitava la réclame. Le dame dell’alta società, racconta il British Medical Journal, organizzavano “Morphine Tea Parties”: alle quattro del pomeriggio ci si ritrovava per un tè con pasticcini in compagnia di un’infermiera professionista che praticava l’iniezione a turno a tutte le partecipanti. Insomma, prima che la tossicodipendenza dei reduci spaventasse politici e giornalisti tutta la società era profondamente drogata. La morte di Billie Carleton è solo il detonatore dell’ipocrisia.

 

Il ruolo dei personaggi orientali nelle opere di intrattenimento è dibattuto da tempo. Nell’universo Marvel sono quasi sempre ninja

Nel marzo del 1922, tre anni dopo il Victory Ball, la Metropolitan Police cerca di inchiodare Chang per la vicenda di Freda Kempton, una ballerina notata in sua compagnia poche ore prima di morire per overdose di cocaina. La campagna giornalistica prosegue senza sosta – “Le madri dovrebbero tenere le loro figlie il più lontano possibile da Chinatown, dalle lavanderie cinesi e da ogni altro luogo di ritrovo degli uomini gialli”, scrive ad esempio l’Empire News – ma la morte di Kempton viene archiviata come suicidio e Chang non sarà arrestato fino al 1924, quando finalmente i detective riescono a trovare una piccola quantità di stupefacenti nascosta nell’appartamento di Limehouse grazie a Violet Payne, un’attrice eroinomane diventata informatrice.

 

Sull’onda della campagna giornalistica, racconta John Baxter nel libro Brilliant - The Rise and Fall of London’s Jazz Age Drug Lord, sembra quasi che il giudice voglia punire più il successo di Brilliant Chang con le ragazze londinesi che non la sua attività di trafficante: “Sono gli uomini come Brilliant Chang che stanno corrompendo la gioventù e le donne di questa nazione”, si legge nella sentenza.

 

Brilliant Chang subisce una condanna a 18 mesi di reclusione e, una volta scontata la pena, viene deportato all’estero. Forse si stabilisce a Marsiglia. Si dice che mantenga i suoi affari con Londra a debita distanza. Nel 1927 riemerge a Parigi con un’altra accusa di traffico di droga, ma viene liberato su cauzione e poi sparisce nel nulla, forse a Shanghai. Un’immagine scattata negli anni Trenta a Hong Kong ritrae un uomo che potrebbe essere Brilliant Chang; il nome vergato in caratteri cinesi è Chen Bao Luan, ma rimane impossibile stabilire se si trattasse di un accertamento sui documenti o di una foto segnaletica della polizia. Intanto, le leggende sorte intorno a lui trasformano Limehouse in una specie di luna park: i tabloid continuano a pubblicare illustrazioni con la scritta “The Limehouse’s Spider Web” che ritraggono Chang a forma di ragno circondato da donne bionde cadute nella sua tela, mentre astuti impresari pagano i cinesi della zona per inscenare finti scontri tra bande a beneficio di turisti creduloni in cerca delle emozioni proibite di Chinatown, nonostante la comunità vanti uno dei tassi di criminalità più bassi di tutta Londra. L’intero quartiere sarà raso al suolo da un bombardamento nazista durante la Seconda Guerra Mondiale.

 

Brilliant Chang ha creato il Dottor Fu Manchu e il Pericolo Giallo o Sax Rohmer e i tabloid hanno creato Brilliant Chang? Attenzione, perché il capovolgimento culturale è già in corso: ai botteghini cinesi ha sbancato Wolf Warrior 2, il film che racconta di un Rambo di Pechino che combatte i corrotti mercenari occidentali. Il rapper Xie Di ottiene milioni di visualizzazioni con il pezzo Gua Lao wai, “Stupidi stranieri”. A manipolare certi cliché con leggerezza si finisce sempre in territori pericolosi.

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