Jeanne Moreau (foto LaPresse)

Fino all'ultima francese

Simonetta Sciandivasci

Da Catherine Deneuve a Marléne Schiappa, metamorfosi e censura della joie de vivre

Potete sembrare francesi anche senza esserlo, dopotutto Jane Birkin è inglese e Joséphine Baker e Jean Seberg erano americane, ha scritto il Guardian, con sommessa perfidia, e una certa soddisfazione. Chi ha odiato una francese almeno sessanta volte nella vita – cioè tutte le non francesi, tutto il mondo meno la Francia, tutte noi che ingrassiamo e con le ballerine ai piedi sembriamo ippopotami al balletto – sa che non è vero, perché le francesi non sono di questa terra e, specie se parigine, non ingrassano e con le ballerine ai piedi stanno un incanto e quando piove non si bagnano o, se si bagnano, non s’innervosiscono e anzi sorridono e fanno sembrare le pozzanghere dei laghi di cigni, e se dicono una parolaccia non sono volgari ma al massimo sbarazzine e per ammaliare un uomo basta solo che gli dicano una parola, una qualsiasi, nella loro lingua che si parla arricciando il muso e alzando le spalle. Questa è la parte più facile del loro prodigio, quella più teatrale, più replicabile (a patto che si disponga di un assai considerevole talento per la simulazione), quella che fa scrivere al Guardian che la francesità delle francesi è un codice di stile apprendibile su Instagram, dove quest’anno l’hashtag #frenchgirl è un indirizzo di grande tendenza; dopotutto ogni estate è la stessa solfa, ogni anno ci propinano gli stessi consigli di moda e turismo, che sono diventati una cosa sola, sempre uguale: tiratevi su i capelli come Brigitte Bardot, andate a cena in jeans e camicia da uomo come Francoise Hardy, cingete il punto vita con una corda come in un film di Rohmer, sposatevi in maglietta a righe, sposatevi alla marinara (così vale di meno).

   

Ma veniamo al cuore del prodigio, all’inimitabile, al perché non c’è modo di sembrare francesi senza esserlo – che assurdità sciocca e tremenda pensare che si possa: fa venir voglia di diventare sovranisti per emanare una legge ancora più sciocca e tremenda che sanzioni chi l’ha pensato – nemmeno nell’estate dell’anno in cui molto di quello che della Francia abbiamo più amato e sognato viene preso, fatto a brandelli e irregimentato. Indossava una casacca a righe (eh già!), Jeanne Moreau, quando in Jules et Jim di Francois Truffaut cantava Le tourbillon de la vie, il vortice della vita: “Ci siamo conosciuti e riconosciuti, ci siamo persi di vista, ci siamo ripersi di vista, e ci siamo ritrovati e poi riaccesi e poi ci siamo separati”. Sarà che, come scrive Giovanni Cocconi nella sua lettura teatrale Le tourbillon de la vie – Truffaut, Godard e il Maggio francese. La parabola della più grande amicizia della storia del cinema nella Parigi del ’68, quella è una scena che non era prevista, che nacque un po’ per caso in uno chalet sul Vosgi, e che è l’unica in presa diretta di tutto il film e che Jeanne Moreau era innamorata pazzamente di Truffaut, che ricambiava, e per questo lei era tanto allegra che sul set cucinava per tutti, ogni giorno (la spesa la faceva fare all’autista della Rolls Royce che aveva comprato da poco). E sarà pure che Jules et Jim, scrive ancora Cocconi, era “una tragedia raccontata in forma di fiaba, un film scabroso trasfigurato dalla grazia”, sarà quel che sarà, ma la disperata allegria di Jeanne Moreau nel cantare quei versi tremendi – tragici, appunto, come tutto il film – è il prodigio delle francesi, che negli occhi, nei vestiti, nei modi, nello stile, nelle ballerine, nelle canzoncine, nel fischiettare, nel fare comme un garçon, hanno una tristezza contenta e sbruffona, una gaiezza inquieta e, soprattutto, la disponibilità a ribaltare entrambe, in ogni momento. Per questo sono sempre eleganti e comode, sempre vestite come se dovessero andare prima a un matrimonio e poi a un safari senza potersi cambiare. Pronte a tutto, sempre, non per eroismo, ma per gioco. Le ragazze che attraversano la vita con un bagaglio di nonchalance (naturalmente intraducibile, trattandosi d’invenzione francese), un diario e qualche paia di mutandine e tanto a vestirsi si pensa poi, tanto non è l’abito che fa la francese, ma la francese che fa l’abito.

 

Non è mai l’abito che fa la francese ma la francese che fa l’abito, e ti guarda con tristezza contenta, sbruffona e inquieta

“Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia”

Lo sguardo di Jeanne Moreau in quella scena è un messaggio alla vita. Questo: sei orribile e furba, ma io lo sono più di te. Lo stesso messaggio aveva negli occhi Catherine Deneuve mentre, ospite a L’Arena, qualche mese fa, osservava Massimo Giletti, e gli rispondeva “di questo non parlo”, “di questo non dico in tv”, “questo non è affar suo” e lui insisteva, disperato, e le cantava Mi ritorni in mente e le mostrava video di attori che le dichiaravano amore eterno, di Berlusconi che la elogiava, ma niente, lei niente, rimaneva impassibile e divertita. Furbina. Francese. Seducente e per niente sedotta. Glaciale.

 

Quando, poco dopo lo scandalo Weinstein, Deneuve ha firmato l’appello sul Monde delle cento donne francesi che mettevano in guardia dal puritanesimo, dal #metoo che cominciava a diventare prescrittivo e illiberale, dall’annegamento della seduzione in una melma indistinta di stupro e avance, dall’eugenetica della relazione tra donne e uomini, il mondo s’è spaccato in due: chi stava con lei e chi no. Le americane hanno potuto finalmente prendersi la loro rivincita e scrivere vibranti editoriali in cui spiegavano la differenza tra il femminismo loro e quello francese (giochino: come disegnereste quella differenza? Magari una foiba riempita di orripilanti mutandoni?).

 

Mezzo mondo a dire meno male che sono arrivate le francesi, c’è ancora qualche chance di far l’amore e l’altro mezzo a dire vecchie carampane imbevute di patriarcato inconsapevole, rincitrullite privilegiate, francesi, ah come si vede che lo siete, il problema è proprio che lo siete così tanto. Finalmente c’era un qualcosa di non effimero a cui appigliarsi per distruggerle, per rinfacciar loro tutta quella Francia, quella seduzione dispotica, quella bellezza e quella malizia insostenibili. Finalmente non era più solo “non siete questo granché, anzi siete smorfiose e antipatiche” (meglio le inglesi, che saranno anche sgraziate ma almeno sono divertenti e hanno la regina, scrisse il Sunday Times qualche anno fa), bensì “siete pericolose perché avallate gli stupratori”. E così, Catherine Deneuve ha dovuto scusarsi per aver firmato quell’appello e tornare alla vita come l’ha raccontata a Massimo Giletti: “normale, cucino, faccio la spesa, mi piace il ginko biloba perché ha le foglie a forma di cuore”. Deve aver pensato, come tutti, che non c’è più modo di ragionare.

 

Quando chiuse con Jeanne Moreau, Truffaut cadde prima ai piedi di Francoise Dorleac, la sorella di Catherine Deneuve che morì a soli 25 anni in un incidente d’auto e poi, ovviamente, ai piedi di Catherine. Quando si lasciarono (fu lei a mollare), lui si chiuse in un albergo e prese a scrivere lettere da suicida: “I colori delle pillole sono diventati il mio unico orizzonte”.

 

“Le ragazze con cui andiamo a letto ci separano ogni giorno di più invece di avvicinarci”, scrisse Godard a Truffaut, nel 1962. Giovanni Cocconi inserisce questa lettera alla fine della quarta parte della sua lettura, che apre così: “Dopo il cinema, la cosa che più avvicina Truffaut e Godard è il rapporto con le donne. Entrambi non riescono a lavorare se non sono innamorati. Si innamorano per poter lavorare e lavorano per potersi innamorare. Non si possono capire i loro film se non si conosce il loro rapporto con le donne”. Se le francesi non fossero state tanto irresistibili e francesi, non ci sarebbe stata la Nouvelle Vague. “Non so se sono infelice perché non sono libera o se non sono libera perché sono infelice”, fa dire Godard a Jean Seberg (Patricia Franchini) in Fino all’ultimo respiro, che della Nouvelle Vague è il manifesto. Anche questo è un messaggio alla vita che solo le francesi mantengono, fisso, nello sguardo, nei vestiti, nelle ballerine, immutato da prima di allora e dopo di allora. Ce l’ha Sophie Marceau ne Il Tempo delle mele. Ce l’ha Audrey Tautou ne Il favoloso mondo di Amelie. Ce l’ha persino Marion Cotillard ne Il cavaliere Oscuro-Il ritorno. Ce l’hanno tutte le fidanzate co.co.pro di Bertrand Morane ne L’uomo che amava le donne, uno che era capace di innamorarsi anche della ragazza del servizio di radio sveglia – “incontriamoci, Aurora, mi permetta di chiamarla Aurora, non sia crudele” – e di pensare che “le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre donandogli il suo equilibrio e la sua armonia” e di finire a vivere con una squilibrata che lo costringeva a fare l’amore nei supermercati e s’ingelosiva quando lui leggeva un libro.

 

Prima che avessimo il tempo di capire come proteggere tutta questa eccentrica sete di vita e consapevolezza delle sue fregature, avendole o meno capite, ma certamente ammirate, le francesi sono diventate indigeste, incompatibili con questo tempo di nettezze e libertà che si credono risolutive e felicitanti, e s’è preso a farle, pian piano, a pezzi, a ridiscuterle, a correggerle, a ridurle a icone. Invece, l’allarme avrebbe dovuto scattare dopo quel pezzo del Sunday Times, che era una dichiarazione di guerra fredda, ora conclusa e persa a danno delle francesi.

 

Mezzo mondo a dire “meno male che sono arrivate le francesi, faremo ancora l’amore” e l’altro mezzo a dire “avallate lo stupro”

“Non so se sono infelice perché non sono libera o se non sono libera perché sono infelice”, fa dire Jean Luc Godard a Jean Seberg

La scorsa settimana, Vanity Fair era felice di annunciare che il prossimo autunno sarà di gran moda il foulard in testa, proprio come lo porta la regina Elisabetta. Che allegria.

 

Marlène Schiappa, ministro francese per la Parità tra donne e uomini, è riuscita a far approvare una legge che sanzionerà le molestie per strada. Multe dai 750 euro in su. A uno come Bertand Morane finirebbero per pignorargli la casa, la macchina, le mutande, probabilmente anche un occhio.

 

Prima di diventare ministro, protetta da pseudonimo, Schiappa ha scritto alcuni libri interessanti: Provate l’amore delle curvy (2010), Provate i trombamici (2012), Le ragazze perbene non ingoiano (2014), Sesso, menzogne e periferie calde (2014). In molti le chiedono come mai a un’autrice di libri così audaci sia venuta in mente una legge tanto punitiva, ma lei non risponde. Magari è una fake news, magari questa sua torsione è un modo istituzionale per dimostrare alla platea mondiale, l’orripilante giuria che siamo diventati tutti, che le francesi non sono mica tutte come Catherine Deneuve e le sue cento amiche, che le francesi faranno la loro parte nel lavoro di disintossicazione e recupero del maschio, del sesso, dell’amore, del potere. Amanda Lear, Dalida, Françoise Sagan, Juliette Gréco finiranno presto in un museo di quelli dove, alla fine della visita, ci si potrà chiudere in uno stanzino riposante per riaversi dal trauma di aver letto e visto di donne così spudoratamente alleate ai maschi, così supine, così lascive, così giocose, così indisponenti (scusate la distopia), così tristi per via della libertà o libere per via della tristezza.

 


Marlène Schiappa (foto LaPresse)


  

Il mese scorso è iniziata la serie Paris Etc su Tim Vision, con Valeria Bruni Tedeschi. E’ stata presentata così: “una dramedy al femminile che racconta le storie intrecciate di cinque donne parigine molto diverse tra loro”. Ed è proprio vero: è una tragicommedia nevrotica e spenta, con le attrici vestite come precarie in una fiction romana, le protagoniste senza brio negli occhi e tutto il peso del mondo sulle spalle e le recriminazioni sulla punta della lingua e molti bicchieri di vino rosso per ricordare che siamo a Parigi e mariti erotomani ai quali non intendono dar corda e una mamma che risponde “sì, lo sono... per il futuro del pianeta” al figlio che le domanda “mamma, sei triste?”. Una docufiction della Rai sarebbe forse stata più sognante, più scoppiettante, più fedele alle parigine dei nostri sogni. Chi lo sa se esistono ancora.

 

E’ anche successo che Fanny Ardant, più o meno negli stessi giorni in cui Hollywood discuteva dell’opportunità o meno di affidare un ruolo da transessuale a Scarlett Johansson, elaborando la bislacca teoria secondo cui un attore deve interpretare solo ruoli che corrispondono a cosa porta o sceglie di portare nelle mutande e al colore della pelle con cui nasce e alla storia del cognome che porta, insomma nel pieno dell’ennesima imbecillità di un anno assai poco brillante e per niente francese e, forse proprio per questo, schifosamente censorio, nel pieno di tutto questo, Fanny Ardant, l’ultima donna amata da Truffaut, è andata a Locarno e, dentro un tailleur scollato, ha parlato del suo prossimo film, nel quale interpreta un transessuale. Ha detto: “Non sono andata in qualche night a incontrare trans, m’è bastato che il regista mi dicesse di tenere la voce più bassa e camminare in modo femminile: il resto è venuto da se”. Speriamo che pure nel mondo di dopodomani arrivi sempre una francese sofisticata e bellissima, atemporale e libera e triste, alla quale daremo della snob insopportabile, perché lo sarà almeno un po’, a dirci che lei se ne frega delle nostre assurde pretese e ripuliture e quadrature, perché non c’è modo di controllare la vita, che è un tourbillon, un mulinello, un vortice ed è per questo che conviene sempre camminarci dentro in ballerine. E magari indossando un buon cappello in testa: diceva Coco Chanel che, da lassù, quando ci guarda uscire di casa, Dio vede innanzitutto quello.

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