Una scena del film The dreamers diretto da Bernardo Bertolucci con Eva Green , Michael Pitt e Louis Garrel

A vigilare sulle scene erotiche al cinema il #metoo mette gli avvocati

Simonetta Sciandivasci

Le attrici non si fidano più dei registi e scelgono di tutelarsi con accordi legali da pressioni professionali più o meno morbide 

Sul sesso ci si accorda, tanto nella vita quanto sul set – la coincidenza delle due cose, dopotutto, è uno dei prodotti culturali del #metoo e del suo tempo, il nostro. Chi sgarra, finisce in tribunale. “La scena di sesso dovrà essere conforme alla sceneggiatura approvata dall’artista e non potranno esserci cambiamenti senza che prima l’artista non firmi un consenso per ciascuno di essi”, è scritto al primo dei sei punti di un accordo legale standard sulle scene erotiche in un film, uno di quelli che, negli ultimi mesi, a Hollywood è ormai prassi che attori e produzione firmino prima di cominciare le riprese. L’obiettivo è tutelare gli artisti (le artiste soprattutto) da abusi, molestie, pressioni per spogliarsi di più e più a lungo, ricatti professionali più o meno morbidi, più o meno irricevibili. Interessante anche il punto due: “L’artista ha il diritto di cambiare idea e non esibirsi in una scena di sesso, anche se precedentemente concordata”. Il resto assomiglia parecchio alle linee guida comportamentali che Condè Nast, a gennaio scorso, ha imposto di seguire sui set dei suoi servizi di moda, dopo che Bruce Weber e Mario Testino, tra i fotografi più prestigiosi che hanno collaborato con Vogue, sono stati accusati di molestie sessuali da decine di modelli e assistenti (bandita la presenza di personale non coinvolto nella realizzazione della scena, banditi i cellulari e le videocamere).

  

L’Hollywood Reporter ha esaminato il testo del post #metoo legal document e l’ha trovato un po’ lasco, persino furbetto, perché tutela l’attrice solo per le scene dove il sesso è previsto e non per tutte le altre, durante le quali a un regista un po’ porco potrebbe venire in mente di chiedere a un’artista di dare un bacetto in più, di levarsi una maglietta, insomma di fare quello che un tempo era proprio del suo lavoro: improvvisare, creare facendo (per dire: gli attori di Godard si attenevano a un breve canovaccio e il resto era jazz).

   

La fiducia tra attori e registi e, anzi, l’affidarsi, praticamente totale, di un attore al proprio regista, la sua disponibilità a farsi modellare, trascinare, disporsi in un processo creativo – una di quelle cose che s’è battagliato per difendere da ogni pretesa di irreggimentazione – son cose di giorni perduti: hanno fondato un cinema che non c’è più. E, di questo, non si sa se ridere o piangere (quando l’Hollywood Reporter, qualche giorno fa, ci ha deliziati con un lungo articolo nel quale ha spiegato che la presenza di un solo film di una regista, in concorso al festival del cinema di Venezia, sarebbe lo specchio perfetto della mascolinità tossica all’italiana, il direttore della kermesse, Alberto Barbera ha scritto su Twitter proprio così: “Non so se ridere o piangere”). A Hollywood qualche ragazza pare stia molto tremando al pensiero che Harvey Weinstein abbia fatto i suoi porci comodi appropriandosi delle scene tagliate di “Carol” (un film del 2015), prodotto dalla sua fu società, dove c’erano parecchi nudi e parecchio sesso di e tra Cate Blanchett e Rooney Mara. Questo è il clima. Non che prima del #metoo le attrici hollywoodiane fossero tutte come Sandra Milo: alcune – quelle con il potere contrattuale più elevato – si tutelavano con delle clausole di non-nudità che, tuttavia, le mettevano al riparo fino a un certo punto dal regista porcone che, a fine giornata, quando erano più stanche e vulnerabili, si avvicinava loro sussurrando “perché non riproviamo quella scena con te senza vestiti?” (una cosa che, ultimamente, sembra capiti tantissimo ed ecco spiegato il fiorire di accordi avvocateschi – e quasi quasi era meglio quando a vigilare sui baci e le coccole e i culi che dovevano finire sulle pellicole erano i preti, ma forse abbiamo la mente intenerita da “Nuovo cinema paradiso”). In un’intervista di qualche tempo fa, Sandra Milo ha raccontato che ciò che più le manca del cinema di una volta, quello che lei faceva quando era giovane, è il regista che stava appiccicato alla telecamera e del quale sentiva perfino il respiro: era anche quella prossimità che, secondo lei, consentiva di fare delle riprese l’atto creativo e sorprendente che erano.

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