Regina King premiata con l'Emmy come attrice protagonista per la serie Seven Seconds (foto LaPresse)

Sette secondi per un Emmy

Gaia Montanaro

Regina King premiata come attrice protagonista per la serie tv Seven Seconds (Netflix), la storia di un ragazzino afroamericano investito accidentalmente e ucciso da un poliziotto bianco

Regina King questa notte regina lo è stata di nome e di fatto. Era incredula mentre, stretta in un fasciante abito giallo, si è alzata dalla platea del Microsoft Theater di Los Angeles per andare a ritirare l’Emmy come miglior attrice protagonista in una miniserie drammatica. L’attrice ha infatti prestato il volto a Latrice Butler, madre di un ragazzino afroamericano ucciso in un incidente automobilistico ad opera di un poliziotto bianco in un New Jersey livido e freddo. È questa la premessa drammatica di Seven Seconds, serie Netflix per cui la King è stata premiata per la sua interpretazione.

 

  

La prima stagione ruota infatti attorno ai sette secondi che hanno cambiato per sempre la vita di Brenton Butler, quindicenne che viene investito accidentalmente da un poliziotto, Peter Jablonski, mentre stava tornando a casa. I colleghi dell’agente decidono di coprirlo insabbiando le prove per cercare di frenare l’odio e la violenza razziale che potrebbero generarsi nella comunità. Ed è a questo punto che entrano in gioco i media che, per dare in pasto all’opinione pubblica qualcosa che faccia davvero notizia, trasformano un incidente stradale causato dall’asfalto ghiacciato in un omicidio a sfondo razziale, semplificando la realtà e portando la popolazione all’esasperazione e alla violenza.

 

Seven Seconds è una serie ricchissima di temi - forse anche troppi - e di sfumature che lo spettatore coglie proprio per distonia con la storia raccontata, in cui appare invece una netta suddivisione tra chi è nel giusto e chi no, dove tutto è bianco o nero ma per questo profondamente soffocante. È un ritratto duro di un’America contemporanea teatro di scontri razziali sempre più feroci e di divisioni che accendono ed esasperano i conflitti. Sono gli americani che vivono dalla parte sbagliata della storia (o meglio della narrazione del paese), che guardano la statua della Libertà dal retro – questa la forte immagine iconica usata nella serie – perché nel Jersey si è liberi si ma liberi un po’ meno di chi invece guarda il mondo da Manhattan.

 

Brenton la osservava sempre quella statua e l’ha trattenuta negli occhi un attimo prima di morire, come ultima immagine che gli si è impressa nello sguardo per sempre. Quello che viene descritto è un mondo dove sono tutti in trappola, imbrigliati nei pregiudizi e negli stereotipi della società ma raccordati da una rabbia e una sofferenza che stenta a trovare una via di sfogo o di pacificazione. Ed in questo senso l’interpretazione della King appare magistrale, nel suo sguardo di madre ferita, arresa e impotente di fronte ad un’ingiustizia ed un dolore che non trovano un colpevole ma che, infondo, non troveranno comunque una pace. Di fronte a tutto questo l’unica cosa che conta è la verità, ricercata dai protagonisti in modi diversi e con obiettivi differenti, come ultimo tentativo di trovare un senso a quello che è accaduto. La serie non avrà un seguito – è stata infatti cancellata dopo la prima stagione – ma questo non è necessariamente un male: alcune storie trovano il loro punto di equilibrio in un racconto conchiuso, che dura un attimo. Sette secondi.