Clotilde Courau all'apertura della Berlinale (foto LaPresse)

Berlino 2017

L'apertura della Berlinale è un grande sbadiglio, il cinema arriverà (si spera)

Mariarosa Mancuso

Tra “grandi temi” e “vite esemplari” si buttano giù muri

"Son qui per imparare come si buttano giù i muri", annuncia il messicano Diego Luna (era il compagnuccio di Gael Garcìa Bernal nel film “Y tu mamá también”, diretto dal futuro premio Oscar – per lo spaziale “Gravity” – Alfonso Cuarón). Mossa di grande effetto, nella prima conferenza stampa della Berlinale 2017. Gongola l’eterno direttore Dieter Kosslik, eternamente in cerca di addentellati politici per il festival. “Quest’anno abbiamo fatto centro”: senza pudore, si complimenta da sé nel discorsetto d’apertura. Magari potrebbe spiegare a Diego Luna chi ha tirato su il Muro di Berlino, quando lo hanno fatto, e perché lo hanno fatto. L’altro giurato Jake Gyllenhaal interloquisce “le dritte per buttare giù i muri saranno utili anche a noi cittadini americani”. E si compie il miracolo: i film made in Usa, un tempo negletti ai festival che cercavano immaginari più rivoluzionari e militanti, son da oggi in ottima posizione per i premi. L’impegno c’è. Il cinema arriverà (si spera).

 

 

Il film inaugurale, “Django” – diretto dal francese Etienne Comar – racconta un anno nella vita del chitarrista Django Reinhardt. Scartata la frase che ormai ogni fanciulla, imitando Emma Stone in “La La Land”, sogna di pronunciare – “Devo dirtelo subito, io odio il jazz” – va detto che una pellicola più antica e più didattica era difficile da trovare. Abbiamo la musica, abbiamo gli zingari (pardon, i sinti, chiamati dai francesi “manouche” come lo stile del nostro eroe), abbiamo i nazisti, abbiamo la Francia occupata, abbiamo l’attrice belga Cécile de France che fa il doppio gioco e tiene i contatti con la Resistenza (o forse solo con l’amante gitano). Abbiamo la lista di strumenti “non ariani” (da eliminare nei concerti in una tournée tedesca che Django Reinhardt non farà mai) e un protocollo che prevede la durata massima degli assoli, il divieto di battere i piedi per terra, la percentuale di sincopato concessa. Unico attimo di brio in un film che vorrebbe riflettere sul ruolo degli artisti in tempi grami. Pieno di buone intenzioni e scarso di sceneggiatura, riesce solo a fare sbadigliare. 

 

“Django” anticipa il percorso di questa Berlinale, che oltre ai Grandi Temi offre le Vite Esemplari. “Uno spettro si aggira per l’Europa…” titola il programma, sempre a firma Dieter Kosslick, e puntualissimo arriva “Il giovane Karl Marx”, diretto dal regista haitiano Raul Peck. Siamo a Parigi, è il 1844, Karl Marx ha 26 anni ed è sposato con Jenny. Quando incontra per la prima volta Friedrich Engels, lo scambia per un dandy ricco e sfaticato (ricco e figlio di industriali lo era davvero). Non immagina che scriveranno insieme il Manifesto del Partito Comunista (giustappunto: “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo” era l’attacco che catturava l’attenzione). Altre vite d’artisti fanno da contorno al chitarrista tzigano che sviluppò il suo stile dopo aver quasi perso l’uso della mano in un incendio (lo scienziato collaborazionista la vede e sentenzia: “Sangue corrotto, troppi matrimoni tra consanguinei”).

 

Arriva in concorso il documentario di Andres Veiel su Joseph Beuys: il primo tedesco a poter vantare una personale al Guggenheim Museum, quando in patria ancora lo spennacchiavano come si usa spennacchiare l’arte moderna. L’attore Stanley Tucci – già regista del culinario “Big Night” e di “Il segreto di Joe Gould”, ispirato a una leggenda metropolitana newyorchese – dedica “Final Portrait” a Alberto Giacometti (l’attore è Geoffrey Rush, che in ruoli come questo sempre esagera). Al soggiorno parigino dello scultore svizzero, per essere precisi: nel 1964, diviso tra la moglie e l’amante, chiese al critico d’arte Joseph Lord di posare per lui (una settimana, che tra bevute e scorribande si allungò parecchio). Dall’Irlanda arriva “Maudie” di Aisling Walsh, con Sally Hawkings e Ethan Hawke: artista femmina, canadese, e folk. Si chiamava Maud Lewis, era nata in Nuova Scozia nel 1903, l’artrite le impediva i movimenti. Il film più che sull’arte – sarebbe bello essere smentiti – punta sulla sofferenza. 

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