Imagoeconomica

Colpi di pistacchio

Maurizio Stefanini

Passa anche da questi semi il braccio di ferro tra Stati Uniti e Iran, che si contendono il primato della produzione. Ma il vero oro verde è di Bronte

Il nucleare, il petrolio, e i pistacchi. L’Iran degli ayatollah, gli Stati Uniti di Trump, e un comune di 19.000 abitanti alle pendici dell’Etna. Per impedire a Teheran di arrivare alla bomba atomica, dopo aver denunciato l’accordo di Obama il suo successore ha lanciato una guerra economica. Obiettivo più appariscente il petrolio, che è la base dell’economia iraniana. E i Pasdaran hanno infatti minacciato: “Se ci impedirete di esportare il greggio, bloccheremo lo Stretto di Hormuz per impedire anche alle monarchie arabe del Golfo di esportarlo”. Ma le sanzioni riguardano anche altri prodotti emblematici della cultura persiana: dal caviale ai tappeti. E alla fine il mercato su cui il braccio di ferro potrebbe avere le maggiori conseguenze è proprio quello del pistacchio, in cui Stati Uniti e Iran assieme rappresentano l’85 per cento dell’offerta. Un altro 0,3 per cento viene però dalla Sicilia: era l’1 per cento, ma la proporzione si è ridotta per via dell’aumento vorticoso della produzione mondiale che nel 2012 ha oltrepassato il milione di tonnellate. E i nove decimi del pistacchio siciliano sono coltivati attorno Bronte, cittadina nell’area metropolitana di Catania. Anzi, quello di Bronte è considerato il miglior pistacchio del mondo. Un “oro verde” che è infatti quotato il doppio dei prezzi correnti per gli altri tipi di pistacchio.

La produzione mondiale nel 2012 ha superato il milione di tonnellate. L’85 per cento dell’offerta dalla California e dall’Iran

 

Nel 2015 Bronte e Damghan, polo iraniano di produzione del pistacchio, avevano firmato un gemellaggio che comportava anche collaborazioni a livello industriale. Una possibile “testa di ponte” per la controffensiva che i produttori iraniani hanno appena annunciato per la riconquista dell’Europa, proprio approfittando della concomitanza tra la guerra economica di Trump a Teheran e la guerra commerciale di Trump all’Ue? D’altra parte, per il Dop del pistacchio verde di Bronte il prodotto made in Iran in genere più che un alleato è un nemico, come fanno fede le tonnellate di prodotto sequestrato ogni anno dai Nas. Report nel 2016 ci fece pure un servizio, sui pistacchi iraniani che venivano in modo fraudolento impacchettati a Bronte: va ricordato, con denunce degli stessi produttori locali.

 

La guerra del pistacchio si combatte d’altronde a distanza ravvicinata da corpo a corpo perfino nel calendario. Il 26 febbraio è il “Pistachio-Day”, una giornata che gli hanno dedicato gli Stati Uniti per celebrare il suo consumo, ma l’11 febbraio del 2017 a Teheran è stata aperta la prima “Borsa del pistacchio” apposta per condurre la controffensiva contro gli americani. Data simbolica, nel 38esimo anniversario della Rivoluzione islamica contro lo Scià. Come spiegò il presidente della commissione Economia del Majlis Mohammad Reza Pour Ebrahimi Davarani, “fino al 2011 l’Iran era il più grande produttore ed esportatore di pistacchio al mondo; dal 2012 questo primato è passato agli Stati Uniti e oggi esistono dati discordanti”. A partire da quelli sul sorpasso, che secondo i produttori Usa sarebbe invece avvenuto nel 2009. “E su metà degli ettari iraniani”, insistono alla American Pistachios Growers, che raccoglie i 700 produttori californiani. “In ogni caso, l’Iran vuole riprendersi questo primato”, ha proclamato Davarani. Molto in effetti dipende dalle stagioni: nel 2016, per via della siccità che aveva colpito la California, l’Iran doppiò con larghissimo scarto la produzione Usa: 190.000 tonnellate contro 80.000. In compenso nel 2017 la California è tornata a primeggiare, con 272.000 tonnellate rispetto alle 158.000 iraniane.

 

Nelle terre vulcaniche siciliane prosperano le piante con i semi migliori del mondo. I cortocircuiti con la spedizione dei Mille

Il bello è che furono gli stessi iraniani a smantellare la propria posizione dominante, quando gli “studenti islamici” sequestrarono il personale dell’ambasciata Usa a Teheran. Per rappresaglia l’import fu interrotto, e per compensare in California partì quasi da zero una produzione che in appena una trentina di anni ha conquistato il primo posto mondiale. Nel frattempo si scoprì che i pistacchi iraniani erano particolarmente contaminati da aflatossine dovute a funghi e muffe, e nel 1997 l’Ue ne vietò addirittura l’ingresso. Poi il divieto fu rimosso, ma le esigenze di controllo sanitario europeo sono rimaste alte, mentre d’altra parte la produzione Usa è ormai protetta da dazi che non sono stati rimossi neanche con l’accordo sul nucleare. L’Iran ha dunque rivolto il proprio export al medio oriente e soprattutto alla Cina, che notoriamente non ha le fissazioni salutiste degli occidentali, e che ne consuma 80.000 tonnellate all’anno. “Noci felici” o “mandorle verdi”, le chiamano nella Repubblica Popolare.

 

Insomma, un conflitto scoppiettante. D’altronde è scoppiettante anche il nome del pistacchio: pis-tak, come fa il guscio quando si apre all’improvviso. Per onomatopea ha dato in persiano “pesteh”, da cui attraverso il greco “pistàkion” il latino “pistacia”: nome scientifico, “pistacia vera”. E di lì l’italiano pistacchio, lo spagnolo e inglese “pistachio”, il francese “pistacher”, il tedesco “Pistazie”. Però l’arabo non ha la p, e la trasforma in f. Come la lingua Parsi dopo la conquista islamica è diventata Farsi, così anche il “pesteh” diventa “fustuq”, che dà in siciliano “fastuca”.

  

Due diversi percorsi linguistici, che descrivono anche i due diversi percorsi di diffusione. Come racconta Plinio il Vecchio nella sua “Storia naturale”, infatti, dalla Persia antica attraverso le monarchie ellenistiche e poi il governatore romano della Siria Lucio Vitellio, i pistacchi arrivarono una prima volta in Spagna e in Italia, tra il 20 e il 30 dopo Cristo. A quell’epoca, già avevano una storia plurimillenaria. “Ecco ho sentito dire che vi è il grano in Egitto. Andate laggiù e comprate per noi… Portate in dono a quell’uomo i prodotti scelti del paese: balsamo, miele, resine, laudano, mandorle e pistacchi”, dice nella “Genesi” il patriarca Giacobbe, quando manda i figli a fare rifornimenti in quel del Nilo. Assieme ad altre piante pregiate, il pistacchio è ancora citato nell’obelisco che il conquistatore re assiro Assurbanipal, sul trono tra 668 e 626 a.C., fece innalzare nella città di Kolach.

 

Con le alte esigenze di controllo sanitario europee e le sanzioni americane, Teheran ha rivolto il proprio export soprattutto in Cina

Apportatore di 562 calorie ogni 100 grammi, facile da trasportare e a lunga conservazione, il pistacchio è composto all’82 per cento da lipidi, al 12 per cento da proteine e al 5 per cento da carboidrati. Ricco di calcio, ferro, fosforo, magnesio e potassio, contiene inoltre le vitamine A, B1, B2, B3, C ed E. Preziosa merce di scambio, ricercata preda di guerra, il pistacchio era considerato dagli antichi una materia prima strategica: quasi come oggi appunto il petrolio. Babilonesi, Assiri, Siriani e Greci lo utilizzavano come toccasana dalle molteplici proprietà curative. Potente afrodisiaco antesignano del Viagra, secondo le indicazioni dello stesso Avicenna, che infatti era di origine iranica. Ma Avicenna lo indicava anche per le malattie del fegato, e come antidoto contro i morsi degli animali velenosi. Un po’ probabilmente esagerava, ma anche la medicina moderna riconosce che il pistacchio rafforza la memoria e le capacità intellettive, è un rilassante del sistema nervosa, agevola la digestione, riduce il colesterolo nocivo, regola il funzionamento del cuore, rafforza la vista, riduce lo stress negli ammalati di diabete, fa bene alla pelle. A Bronte si raccoglieva anche la resina di pistacchio. Si spalmava sui punti doloranti, si aspettava qualche giorno, e poi quando si raschiava via se ne andava anche il dolore.

  

Nei climi e territori in cui gli eserciti medio-orientali dovevano muovere, dunque, era una sorta di arma segreta. E anche per i mercanti e le carovane era estremamente utile. Lo stesso Marco Polo si abbuffò di pistacchi durante i suoi faticosi e pericolosi viaggi, e fra le ricette che ci ha tramandato il suo contemporaneo e biografo Jacopo d’Acqu ci sono ad esempio le cosce di cammello giovane farcite con un’anatra a sua volta farcita con carne di porco tritata, pistacchi, uva passa, pinoli e spezie. E il balesh: crema di farina, panna e miele con olio di pistacchi. E fettuccine con panna, pistacchi e minuscoli pezzettini d’oro e d’argento.

 

Il pistacchio ha però una virtù che si rivolta spesso in inconveniente. Pianta longeva, può vivere anche 200 o 300 anni. Proprio per questo ha però uno sviluppo molto lento, e riesce a produrre i suoi frutti solo a dieci anni di distanza dal suo innesto. E qui l’autore di queste note confessa di avere avuto un prezioso consulente in materia nella persona di Nunzio Caruso: un commilitone ai tempi del servizio militare che appunto è di Bronte, e che malgrado il fisico smilzo riusciva a caricarsi da solo a spalla mitragliatrici Browning da 27 chili proprio grazie alla pratica con i sacchi di pistacchi prodotti in famiglia. “Allora si facevano sacchi di juta da 80 chili. Adesso si usano sacchi di nylon da 40 chili”. E’ sempre lui a spiegarci che il pistacchio si raccoglie ogni due anni non perché non produca, ma per esigenze di qualità, e anche per combattere i parassiti. “Gli anni pari si tolgono tutte le gemme del frutto non appena spuntano, e gli anni dispari si raccolgono”. In gergo li chiamano anni di carica e di scarica, mentre l’operazione è la “scozzolatura”. “Adesso – aggiunge Caruso – alcuni produttori stanno provando nuove tecniche per fare il raccolto tutti gli anni. Ma stanno ancora in fase sperimentale”.

 

Preziosa merce di scambio, ricercata preda di guerra, il pistacchio era considerato dagli antichi una materia prima strategica

 

“Il pistacchio non sopporta le mezze stagioni”, è un’altra massima tradizionale. Ha infatti bisogno di climi che passino direttamente dal grande freddo al grande caldo. Per questo, non è facile da trapiantare. Le coltivazioni tentate dai romani in Liguria, Puglia, Campania e Sicilia, infatti, dopo un po’ vennero abbandonate, le piante rinselvatichirono, e gli italiani le riciclarono come legna da ardere. Ma poi la Persia fu conquistata dagli Arabi, che quando arrivarono anche in Sicilia avviarono il secondo percorso. Ed è attorno al 900 d.C. che in Sicilia la coltivazione venne ripresa, incrociando le nuove piante domestiche con quelle inselvatichite. Un terreno particolarmente adatto, con le sue ceneri vulcaniche, si rivelò l’Etna: quello che gli arabi chiamarono Gebel, “la Montagna” per eccellenza, da cui con la doppia locuzione di Monte Monte, dal latino e dall’arabo, il siciliano Mongibeddu, italianizzato in Mongibello.

 

“L’eccellenza del pistacchio di Bronte si deve anche all’innesto col terebinto”, è un’altra cosa su cui la nostra guida insiste. E’ un cespuglio tipicamente mediterraneo che ci arriva direttamente dai tempi della Bibbia. “Al direttore del coro. Su ‘Colomba dei terebinti lontani’. Inno di Davide quando i Filistei lo presero in Gat”, recita l’incipit del Salmo 56. “Scornabecco” lo chiamano a Bronte, ma anche “spaccasassi”, per il modo in cui le radici si infilano nel suolo vulcanico. Dopo gli arabi bisogna poi aspettare altri nove secoli, per arrivare alla Repubblica Partenopea. Insediata dai francesi di Napoleone, e scalzata dagli inglesi dell’ammiraglio Nelson, che ne ebbe in cambio dal “Re Nasone” Ferdinando IV il feudo siciliano di Bronte. Scacciati dalle loro terre, i contadini locali matureranno quei risentimenti infine esplosi al momento della spedizione dei Mille, costringendo Nino Bixio alla cruenta repressione immortalata dalla novella di Giovanni Verga. Ma un’altra conseguenza fu che per sopravvivere gli stessi contadini dovettero coltivare terre vulcaniche e marginali in cui altre colture stentavano, ma dove in compenso prosperarono i migliori pistacchi del mondo. Tutt’oggi su 25.000 ettari del comune di Bronte, tra i 3 e i 4.000 sono coltivati a pistacchieti da un migliaio di produttori.

 

Proprio dal cortocircuito tra pistacchio e spedizione dei Mille viene un altro sostanzioso corpus di citazioni letterarie e ricette. C’è ad esempio il Rotolo alla Garibaldina: carne ripiena di pistacchio che fu preparata la prima volta proprio per dare il benvenuto al Generale. Dopo averla assaporata Garibaldi cercò di coltivare il pistacchio a Caprera, ma invano C’è poi Alessandro Dumas padre, che oltre alla saga dei “Tre moschettieri” e a quella del “Conte di Montecristo” scrisse sia una biografia di Garibaldi dettata dallo stesso eroe, mentre lo scrittore era al suo seguito; sia un “Grande dizionario della cucina” che suggerisce il pistacchio per ripieni, aromatizzazione di selvaggina e pesce, minestre, pesto e crema. C’è poi “I viceré” di Federico De Roberto che ci mostra i frati di Bronte alle prese con i gelati al pistacchio. C’è la “Storia di una capinera” di Giovanni Verga, in cui sono invece le suore a preparare col pistacchio la pasta martorana. E c’è “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con i buffet del principe Diego Ponteleone cosparsi di verdi pistacchi macinati e inframezzati da creme di mandorle e pistacchi.

 

Dal gusto e aroma peculiare, anche a occhio il caratteristico colore verde smeraldo distingue subito il pistacchio di Bronte dal giallo delle correnti produzioni americane o asiatiche. Ideale per i torroni, in Sicilia ci fanno anche caratteristici pesti per condirci la pasta, o lo mettono negli arancini. Ma è indispensabile anche per mortadelle e soppressate, e finisce in paste, mousse, confetti, gelati, granite, perfino cosmetici. Nella Sagra del Pistacchio che si tiene a Bronte nei settembri “dispari” di raccolta si arriva alle salsicce, alle crêpes, a una pasta da spalmare sul pane, al salame, al formaggio, a un liquore e a un caffè. L’80 per cento del pistacchio di Bronte è esportato all’estero: soprattutto in Francia e in Germania. Di quel che resta in patria, il 55 per cento va nell’industria delle carni insaccate, il 30 per cento in quella dei dolci e il 25 per cento in quella dei gelati. Forse l’unica cosa per cui il pistacchio di Bronte è usato poco è per l’uso soprattutto imperante nel resto del mondo, dello snack salato. Ma per quello non manca la materia prima più dozzinale. “Il pistacchio di Bronte non ha bisogno di essere salato”, ci dice ancora Caruso. “E neanche di tostatura in forno. Lo metti al sole, e in tre giorni è pronto. Mi insegnava mio padre che bisogna prenderlo in mano a agitarlo vicino alle orecchie: quando senti il frutto che si muove nel guscio lo puoi assaggiare”.