In un mondo di chef e gastrochic, Bourdain era la rockstar delle bettole

Michele Masneri

Addio all'uomo che ha sdoganato lo street-food

Roma. Nell’estate dei suicidi arriva anche lui, Anthony Bourdain, celebrità gastrotelevisiva che ieri s’è tolta la vita in Francia, in una camera d’hotel. Noto in Italia soprattutto per la recente relazione con Asia Argento, Bourdain, 61 anni, era però globalmente celebre in proprio: il suo show “Parts Unknown”, che va in onda su Cnn nella sua undicesima edizione, l’aveva consacrato come esploratore soprattutto di bassifondi e retrocucine in una narrazione culinaria senza impiattamenti e sferizzazioni ma invece tipo Dickens della culinaria. Se Martha Stewart era l’apparecchia - trice carina d’America, Bourdain, con questo nome già esotico e la sua vita spesa tra le friggitrici dei bassifondi, era già dalle sue rughe e dalla chioma brizzolata-ribelle un maledetto della zona-pranzo. Droga, vino, sesso, dolore, tutto rappresentato con quelle magnifiche rughe sartoriali su una faccia à la Jean Paul Belmondo.

 

Aveva la biografia perfetta: dropout, sottocuoco di trattoria, passato doloroso q.b., sperso tra east e west coast, nonostante il cognome simil-francese, aveva cesellato una narrazione perfetta: “Le cucine professionali d’America sono il rifugio dei perdenti, sono il posto dove alle persone con un brutto passato viene data una seconda possibilità”, scriveva. Oggi la Cnn apre il suo sito col suo faccione e i suoi braccioni tatuati da galeotto dell’abbattitore (in Italia era stato fatto conoscere dalla Rai 5 di Paolo Giaccio, poi era apparso al braccio di Asia Argento, sostenendola molto nella questione del #metoo).

 

Bourdain, prima cuoco poi scrittore di libri mangerecci e poi personaggio tv, era stato consacrato definitivamente portando Barack Obama a magnare in una bettola di Hanoi, summa dell’epos culinario democratico degli anni Dieci. “La sua filosofia non è molto diversa dalla tua”, disse al presidente il suo consigliere e speechwriter Ben Rhodes, per convincerlo ad accettare quella cenetta in favore di telecamera. “Bourdain pensa che sedendo insieme e mangiando le stesse cose ci si possa capire e risolvere i conflitti”, ha scritto Rhodes nel suo libro appena uscito, “The World as It Is: A Memoir of the Obama White House”. Insomma si pensava che mangiando involtini primavera in una bettola si potessero risolvere crisi internazionali (ah, se Kissinger ci avesse pensato quarant’anni fa). Rhodes aveva convinto Obama dopo aver letto il libro che aveva incoronato Bourdain: “Kitchen confidential” (2000), megaseller mondiale di neorealismo gastronomico, un “Sex and the city” tra le cucine da incubo della capitale morale d’America. “Ci saranno terribili ubriacature, droghe, scopate nella dispensa, rivelazioni poco piacevoli, disquisizioni sulle ragioni per cui chi vuole la carne ben cotta si becca gli scarti di cucina”, scriveva Bourdain.

 

Era antivegetariano, girava il mondo con le sue fauci senza risparmiarsi nulla. “Il cibo è dolore” era una delle sue frasi. “Il corpo è un parco dei divertimenti”, un’altra.

 

Oggi si è tutti sgomenti di fronte a questa morte: e il suo suicidio colpisce più di altri pur eccellenti degli ultimi giorni – la designer di borsette Kate Spade, la sorella della regina d’Olanda, la scrittrice triste Alessandra Appiano. Tutte professioni e posizioni eccellenti, ma niente in confronto allo splendore della cucina televisiva. Mangiare, o almeno parlare di cibo, oltretutto in tv, pareva un’attività felice: sconvolge pensare che forse anche chef e gastronauti sono, come i comici, tristi

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