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un torrente impetuoso

I dieci anni del Papa re. Cos'è rimasto dell'entusiasmo di Francesco

Matteo Matzuzzi

Non è tempo di bilanci per il pontificato di Bergoglio, un fiume in piena che non conosce fasi di assestamento. Indagine su una rivoluzione continua tra riforme, processi (anche giudiziari) e viaggi epocali

L’apertura della Porta santa del Giubileo della misericordia nella cattedrale di Bangui, nella Repubblica centroafricana dilaniata dagli scontri etnici e religiosi, dove la sicurezza fino all’ultimo s’era appellata affinché il Papa non ci andasse. Troppo a rischio la sua sicurezza, troppo alta la tensione. Ma lui non se ne curò troppo, se accadrà qualcosa vuol dire che era volontà di Dio. Andò tutto bene e quei minuti in cui si vede il vescovo di Roma incedere nello stretto corridoio centrale della cattedrale, con i fedeli inginocchiati al suo passaggio, resterà nella storia. Il compimento del senso stesso della Chiesa cattolica, universale. Roma come Bangui, unite dalla fede. E poi quella preghiera in solitaria in piazza san Pietro durante la pandemia. L’adorazione silenziosa disturbata dal suono delle sirene, mentre la pioggia bagnava il crocifisso miracoloso di san Marcello al Corso e il sagrato vuoto. Ogni pontificato porta con sé immagini rappresentative, solitamente quelle che toccano le corde dell’emotività, ma che più in profondità non hanno eguali per potenza di significato. Ve ne sono tante nei primi dieci anni di regno bergogliano, i viaggi ne hanno offerte diverse. Si pensi solo alla prima, insolita scelta: niente grandi capitali europee, niente visite a palazzi presidenziali o chiese barocche. No, la spiaggia di Lampedusa, avamposto d’occidente in mezzo al Mediterraneo trasformato “in un grande cimitero” attraversato quotidianamente da bagnarole zeppe di migranti in fuga da disperazione guerra e fame. Era un segnale anch’esso, la visita a un ospedale da campo tutt’altro che metaforico o ideale. L’indizio che faceva comprendere, solo tre mesi dopo l’elezione, quale sarebbe stata la via da seguire, la strada maestra. Un decennio più tardi, l’ospedale da campo sarebbe stato aperto nel cuore dell’Europa dilaniata dalla guerra.

 

Il 24 febbraio del 2022 ha inferto un colpo durissimo al pontificato di Francesco. L’incredulità per quel che stava avvenendo a qualche migliaio di chilometri di distanza, a est, non è stata metabolizzata in poche ore. I televisori di tutto il mondo trasmettevano le immagini dell’invasione russa in Ucraina, ovunque si sentivano le sirene suonare in un’Europa che, convinta ormai che la pace perpetua fosse divenuta una comoda realtà, non riteneva più possibile che una guerra (e non più “fredda”) potesse combattersi entro i suoi confini. Certo, c’erano stati i Balcani, ma quella tragedia fu derubricata, per comodità o per convinta adesione alle teorie sulla “fine della storia” a resa dei conti intestina tra i popoli slavi, tenuti sotto il tacco del Maresciallo Tito per decenni e alla sua morte divenuti liberi di sfogare la rabbia covata durante la dittatura. Francesco, un anno fa, ha visto crollare molti pilastri della sua certosina opera di cucitura di un mondo a pezzi. Aveva scommesso molto sulla Russia per bilanciare il gigantismo occidentale che portava con sé una malsana idea di globalizzazione che riduceva il mondo a una sfera, levigando le facce del poliedro a lui caro simbolo di un’umanità diversa, custode delle proprie peculiarità. Vladimir Putin cui s’era appellato tante volte per calmare gli ardori americani, britannici e francesi, arrivando perfino al punto da chiedergli di intervenire per impedire la deposizione di Bashar el Assad in Siria, diveniva il carnefice. Il tiranno che, abbandonata ogni ambiguità, invadeva uno stato sovrano puntando a conquistare Kyiv e a rovesciarne il legittimo governo, eletto democraticamente da un popolo fiero e indomito. Tutta la strategia “orientale” di Francesco crollava e il colpo alla politica estera del pontificato era notevole.

 

Anche perché nel decennio intercorso dalla sua elezione al Soglio petrino i successi erano stati rimarchevoli, basti solo pensare alla riconciliazione tra gli Stati Uniti e Cuba, propiziata proprio dalla mediazione della Santa Sede, e come s’è detto il tentativo riuscito di sventare una guerra nel vicino oriente che avrebbe visto impegnati i cacciabombardieri occidentali su Damasco e Aleppo. Ma insieme alla sponda di Mosca ha traballato anche quella rappresentata dalla Cina, ambiguo partner dei russi, con cui si era tessuta una trama fitta ma fragile: l’accordo per la nomina dei vescovi e la fine delle due Chiese, quella ufficiale di stato e quella sotterranea. La prima fedele al Partito, la seconda al Papa. Qualche passo avanti è stato fatto, qualche altro è andato nella direzione opposta. A Xi Jinping dell’abbraccio del Pontefice interessa poco, mentre a quest’ultimo preme molto riuscire a fare breccia nel Celeste impero orientale, il paese che potenzialmente conta più cristiani sulla faccia della terra, se solo a questi fosse permessa la libertà di culto senza i limiti imposti da rigidi funzionari che alla croce preferiscono la falce e il martello, benché declinati secondo lo spirito cinese. Caduto l’asse con Putin e con il suo patriarca che aveva fama di amare l’occidente e i gesuiti, resta Pechino, la terra promessa tanto agognata. E pur di arrivare lì, si è disposti a pagare un prezzo carissimo: il silenzio su tutto ciò che il regime fa, ai vescovi e ai fedeli che faticano a sottomettersi, e a chi a Hong Kong scende in strada per reclamare libertà. Una volta sola Francesco ha preso la parola per difendere la minoranza uigura, e subito è stato rimesso al suo posto da un addetto del ministero degli Esteri cinese che disse: il Papa non sa quel che dice, chiudendo così sbrigativamente la faccenda.

 

Ma il Pontefice non demorde. Andare al largo, senza curarsi troppo delle conseguenze e senza avere mete prefissate: la frase chiave del pontificato vale molto rispetto alla Cina; Francesco vorrebbe farsi missionario e andare là, non vuole perdersi quel popolo ed è disposto anche a mettere da parte i princìpi, ché il fine è troppo grande per essere imbrigliato da condizioni, lacci, ostacoli e teorie accademiche. E pazienza se un cardinale come Joseph Zen, cinese che quindi i cinesi li conosce bene, da anni va avvertendo che ogni accordo con la Cina di Xi altro non è che un appeasement con chi i cristiani li vuole ridurre al silenzio. Sembra di tornare ai tempi della Ostpolitik casaroliana, quella che secondo Joseph Ratzinger (vedasi la biografia di Peter Seewald) fallì nei suoi obiettivi, quando si sopportò anche l’umiliazione di vedere cardinali insultati e costretti ai domiciliari pur di tenere aperto un canale di dialogo con la controparte. E’ un processo avviato la cui conclusione e le sue conseguenze non si vedranno in questo pontificato. Per i bilanci ci sarà tempo.

 

Ed è impossibile, più in generale, fare un bilancio del pontificato di Francesco, eletto Papa dieci anni fa dopo la rinuncia di Benedetto XVI e un mese trascorso in supposizioni su come si sarebbe vestito l’emerito, a quali hobby si sarebbe dedicato, quanto avrebbe fatto sentire la sua voce. E’ impossibile fare bilanci perché il pontificato di Francesco non ha conosciuto – né conosce – fasi di assestamento, di requie, di tranquillità. E’ come un torrente impetuoso, con l’acqua che scorre veloce abbattendosi sulle rocce e travolgendo ogni ostacolo che trova lungo il suo percorso. E quando non riesce a superarlo, esonda. Francesco è stato eletto per far ripartire la Chiesa dopo una stagione, così si diceva, di stanca. Gli scandali, i maggiordomi infedeli, le veline sbattute sulle prime pagine dei giornali. E poi la questione degli abusi, lo Ior: i cardinali riuniti nelle congregazioni generali del pre Conclave esigevano che la curia fosse ribaltata; alcuni invocavano la chiusura della cosiddetta “banca” vaticana. Altri, anime candide, sognavano la Chiesa povera per i poveri, frase a effetto buttata lì tanto per dire qualcosa capace di ottenere l’approvazione distratta dell’opinione pubblica. Francesco prendeva nota, sapeva bene di essere tra i “favoriti”, dopotutto già nel 2005 aveva visto riversarsi sul suo nome un bel pacchetto di consensi. Tanti suoi confratelli, anche quelli che dopo avrebbero fatto capire – chi più elegantemente, chi meno – di essersi pentiti del voto accordato al gesuita argentino, consideravano buona cosa l’ipotesi di un Pontefice estraneo a logiche e cordate romane, e chi meglio di Jorge Mario Bergoglio, uno che a Roma metteva piede il minimo indispensabile, incarnava quell’aria da novello Celestino fatto scendere dal monte per riparare e riformare la Chiesa? Lui, ogni qualvolta gli si chiede conto dei cambiamenti effettuati (anche traumatici), ripete di non aver fatto altro che mettere in pratica quanto chiesto nelle congregazioni. Anche se per lui, la riforma della burocrazia non è mai stata la priorità: “Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi”, disse nella sua prima grande intervista da Papa, alla Civiltà Cattolica. Certo, si poteva fare di più, ma un conto sono le aspettative che precedono un Conclave, altra cosa è il governo quotidiano della Chiesa universale.

 

Non è possibile fare bilanci perché tutto è in moto, a cominciare dal grande Sinodo sulla sinodalità che per molti è un Vaticano III con un nome diverso, con il suo carico di attese che si scontrano con una sempre più marcata irrilevanza della Chiesa nella realtà occidentale. Francesco lascia fare e discutere, il suo compito dopotutto è quello di mettere in acqua la Barca, facendo sì che vada al largo, e pazienza se la meta finale non è ancora nota. Lo Spirito guida e saprà indicare la rotta giusta. Sembra quasi dire, evangelicamente, “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. La risposta è duplice: c’è chi si affida totalmente alla Provvidenza, c’è chi interpreta il peregrinare della Barca come il caotico avanzare in un tempo complicato, con una bussola rotta e cercando ogni giorno un’idea nuova per sistemare, correggere, aggiustare e ripartire. C’è un grande equivoco in questo pontificato, derivante dal suo primo grande documento, la Evangelii gaudium, il vasto programma che Francesco si riprometteva di attuare: la devolution di poteri, anche in materia dottrinale, alle realtà locali. L’idea è nobile e soprattutto popolare: basta con la vetusta Chiesa piramidale costantiniana, con il Papa che tutto decide in trono circondato da una lobby imporporata. Siano le Chiese nazionali, che conoscono il tessuto sociale e culturale in cui vivono i rispettivi popoli, a portare linfa nuova, a dare respiro a una struttura non più al passo con i tempi. Il risultato dell’utopia bergogliana lo si vede oggi e lo si è visto negli anni passati: diktat di conferenze episcopali potentissime (politicamente ed economicamente, di destra e sinistra), ultimatum circa le cose da rinnovare per stare al passo con i tempi, vescovi che dicono a mezzo stampa cosa il Papa deve o non deve dire, pena scismi e catastrofi assortite.

 

Il ribollire drammatico di episcopati che dagli Stati Uniti alla Germania paiono intenti ad affilare le lame guardando il Cupolone. Un contesto di tensioni non risolte, che partono da lontano, con il drammatico Sinodo sulla famiglia conclusosi con la conta all’ultimo voto dei favorevoli e contrari all’ostia per i divorziati risposati, in un clima che di angelico e fraterno aveva ben poco. E proseguito con la questione dei viri probati al Sinodo per l’Amazzonia, fino ad arrivare al Cammino sinodale tedesco che ha come obiettivo quello di portare le donne a celebrare sull’altare e di farla finita con il celibato obbligatorio sacerdotale, quasi che fossero questi i problemi della Chiesa in occidente. E’ paradossale: il Papa che più d’ogni altro ha mostrato disponibilità a cedere autorità, è quello che oggi appare strattonato per la bianca talare, lasciando insoddisfatti tutti. E’ questa la realtà, quella percepibile andando oltre le articolesse trasudanti melassa, i santini apparecchiati supplicando un tête-à-tête a Santa Marta. Il presidente della Conferenza episcopale tedesca, uno di quelli che più ha esultato per il progetto di riforma, un mese fa si è detto dubbioso sul fatto che il modo giusto per governare la Chiesa sia la concessione senza limiti di interviste. Perché in effetti, per capire cosa passi per la testa di Francesco, spesso è necessario attendere la pubblicazione di qualche intervista – televisiva, su carta stampata, radiofonica, ad alta quota – e non di rado capita che l’ultima smentisca la precedente in punti non secondari. Qualche volta, creando anche incidenti diplomatici, come dimostra la reazione russa alle osservazioni di Bergoglio sulla natura dei ceceni e dei buriati, per non dire del “chierichetto Kirill”, con il quale s’era pure abbracciato sotto lo sguardo compiaciuto di Raúl Castro in una sala dell’aeroporto dell’Avana. Amici di lunga data di Jorge Mario Bergoglio dicono che è sempre stato così, che lui i protocolli li soffre e non per altro ha sempre rifiutato di avere accanto a sé segretari: un po’ perché preferiva aggiornarsi in proprio l’agenda, un po’ perché non gradiva che gli assistenti potessero assumere troppo potere, facendo da filtro alla sua persona. Non vi sarebbe insomma niente di insolito: è sempre lo stesso ex arcivescovo di Buenos Aires molto attento alle reazioni mediatiche delle sue parole e dei suoi atti, pronto se necessario a intervenire per correggersi cambiando la rotta. Accadde due anni fa, quando autorizzò la pubblicazione di un responsum ad dubium in cui si negava la benedizione delle coppie omosessuali. La reazione delle piazze e di qualche episcopato fu così forte che, pochi giorni dopo, all’Angelus, il Papa si scagliò contro le “condanne teoriche” e le “pretese di legalismi o moralismi clericali”. Parole che, senza eccezione alcuna, furono lette come una sconfessione del responsum della congregazione per la Dottrina della fede da lui stesso autorizzato. Ed esempi del genere se ne potrebbero citare diversi, tant’è che si può intravedere in una certa ambiguità di fondo un modus operandi, lo stesso che fa dire a vescovi e cardinali – compresi diversi da lui premiati e a lui vicini – che sovente si esca dall’udienza senza aver ben compreso cosa pensi il Papa di una determinata questione presentatagli e discussa.

 

Il grande malinteso di questo decennio è l’idea che la piramide potesse essere rovesciata. Di più: che il processo di rovesciamento fosse in corso, benedetto dallo stesso Pontefice che fin dal principio si era spogliato di tutti i segni costantiniani, il rosso imperiale (ma che in realtà rimanda al martirio), lo stemma sulla fascia della talare, i tronetti e i paramenti appariscenti. In realtà, a tale processo è seguito un accentramento che rimanda semmai ai pontificati pre conciliari, con il Papa che tutto vede e controlla, agendo in prima persona anche per controllare gli affitti delle eminenze, come dimostrano le cronache di queste settimane. Non si contano, tanti che sono, i motu proprio, i rescripta e i chirografi. Tutto cambia di colpo, oltretevere, perfino le norme che regolano i processi in corso. Cardinali che vengono privati dei diritti connessi alla propria posizione sulla base di illazioni giornalistiche, senza che una prova sia stata esibita e – ça va sans dire – un processo istruito. Condanna previa decisa da un moto di stizza del Papa, poi si vedrà. Nel frattempo, il cardinale reietto viene messo alla berlina e additato come il simbolo del malaffare, e il Papa che l’ha messo in castigo ogni tanto dispensa qualche buona parola nei suoi confronti, rendendo più caotico il tutto. L’ha sperimentato Giovanni Angelo Becciu, ma l’ha vissuto sulla propria pelle anche Enzo Bianchi, il fondatore di Bose cacciato dalla sua comunità con il consenso di Francesco, che però – fa sapere lo stesso Bianchi – non manca di fargli sentire la sua stima e vicinanza. E l’elenco potrebbe proseguire, tra preti rispediti in diocesi spesso senza un perché, cardinali pensionati anticipatamente perché non allineati, vescovi trasferiti di colpo per non meglio precisati motivi. Il tutto all’insegna della mancata trasparenza, che pure tanto si sbandierava nella primavera del 2013. Perfino il vicariato di Roma è stato di fatto commissariato con una costituzione apostolica che prevede perfino la presenza del Papa alle riunioni del Consiglio episcopale, chiamato a valutare se un seminarista abbia le carte in regola per essere ordinato prete. La riforma della curia, la “primavera che entra dalle finestre del Vaticano”, come disse il gran consigliere di Francesco, il cardinale Oscar Maradiaga, era l’obiettivo, se non altro l’obiettivo mediatico. S’invocava il repulisti giacobino di cardinali malfattori, si mettevano sul banco degli imputati monsignori e vescovi rei d’aver rimestato nel torbido. Si creavano commissioni, comitati, consigli, inserendovi personalità che – come hanno dimostrato la storia e i processi – di certo non erano migliori di quelli che si volevano epurare. Ecco, la riforma della curia è la grande incompiuta del pontificato. Sì, formalmente è stata riformata, le congregazioni sono diventate dicasteri e si è cambiato il nome di qualche struttura. Ma dopo nove anni di lavoro, non si può certo dire che si tratti di un cambiamento epocale destinato a segnare la storia. 

 

La vera riforma di Francesco, il vero obiettivo, è sempre stato quello di far cambiare mentalità alla Chiesa. “Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo”, disse ancora alla Civiltà Cattolica. Lui che prete lo è diventato a Concilio terminato, ha sempre avuto chiaro il fine di dare pieno compimento e attuazione al Vaticano II. Far terminare, insomma, la lunghissima fase d’adattamento, andare oltre le tensioni laceranti che si trascinano da sessant’anni, far capire al mondo e innanzitutto alla Chiesa che l’esperienza conciliare è un fatto e che da esso non si può tornare indietro. Bergoglio è estraneo alle disquisizioni sull’ermeneutica della continuità o della discontinuità, forse sono discorsi che l’annoiano pure. Lui il Concilio non l’ha vissuto sulla propria pelle e probabilmente non comprende neppure quanti si rifanno ancora al rito secondo il messale tridentino. Non capisce perché tanti fedeli, moltissimi dei quali senza alcuna velleità scismatica, diano così tanta importanza a una “forma” che lui considera superata non tanto per imposizione papale, quanto per la decisione di centinaia di padri riuniti sotto la guida dello Spirito santo. Non comprende i dibattiti che si fanno ancora sulle costituzioni del Vaticano II, ritenendole un fatto compiuto da decenni. Francesco non intende superare il Concilio, magari aprendo le porte a un Vaticano III come voleva Carlo Maria Martini – che stando a quanto ha scritto Andrea Riccardi, citando confidenze dell’ex arcivescovo di Milano, non ha mai apprezzato particolarmente Bergoglio – per far recuperare alla Chiesa i due secoli di ritardo sulla storia. 

 

Marco Marzano, su Domani, ha parlato del “decennio del doppio Papa”, e il riferimento non è alla presenza orante di Benedetto XVI nei Giardini vaticani, bensì di un doppio Francesco: l’innovatore che faceva intendere di voler “rompere” tutto, di essere un uomo di lotta (ecologica, sociale, culturale) e il conservatore che all’ultimo si opponeva a tutte le richieste più di rottura, quelle che chiedevano di dare il via libera all’ordinazione delle donne e di abolire i seminari, ad esempio. Martini, si dice, conosceva bene il “doppio Bergoglio” e già nel 2005 aveva avvertito che non ci si doveva attendere quel salto in avanti da lui agognato e da altri temuto. Francesco però non appare tormentato come lo fu Paolo VI, lapidato da tanti che finirono per considerarlo un traditore per aver seppellito lo spirito novatore con l’Humanae vitae e con la retromarcia innestata nel convulso post Concilio quando impose il Credo del popolo di Dio dopo aver visto entrare nella Chiesa “il fumo di Satana”. Francesco appare sicuro di sé, non si cruccia troppo delle critiche, neppure di quelle dei suoi vescovi che lamentano improvvisi cambi d’umore e di linea del vicario di Cristo e repentine giravolte che mandano in soffitta propositi rivoluzionari più o meno realizzabili. Certo, poi tra chi circonda e consiglia Francesco ci sono figure che puntano ad andare oltre la riforma della Chiesa, teorizzando semmai rivoluzioni. Personalità che hanno preso spazio (anche mediatico) e che come accade in ogni pontificato da sempre costituiscono la corte papale. Che c’è ancora, anche se il Palazzo apostolico è vuoto e il Pontefice abita in un albergo. Monsignori audaci, cardinali che si sono ritrovati inaspettatamente la porpora sul capo (nel senso che non se l’aspettavano neppure loro), giornalisti divenuti amici del Papa, sacerdoti telegenici in sneaker. Si può dire, non è un delitto di lesa maestà: è sempre stato così da circa due millenni e il pontificato di Francesco non fa eccezione. Quel che si è visto in modo evidente, in questi anni, è una crescente polarizzazione interna alla Chiesa. Perché, regnante Francesco, preti vescovi e cardinali fanno quasi a gara per comparire sui giornali chi lodando ogni sospiro papale e chi sobillando moti di piazza e vagheggiando una latente eresia del Pontefice? Fazioni, cordate e gruppi pro e contro ci sono sempre stati, ma dal 2013 si assiste a qualcosa di diverso.

 

E’ una polarizzazione a tratti cruenta, per lo più visibile sulla realtà del web, con i suoi mille canali e rivoli che ben si prestano a divenire lo sfogatoio perfetto per chiunque – anonimo, per lo più – ha qualcosa da dire sulla vita della Chiesa, disquisendo di dottrina e pastorale con dotte citazioni quasi sempre decontestualizzate. Forse la ragione dello schieramento feroce delle truppe sul campo è dovuto anche al fatto che il Papa, implicitamente, ha incoraggiato il formarsi di squadre avverse. E lo ha fatto plasmando il Collegio cardinalizio secondo una precisa idea di Chiesa, la sua. Non è vero che dal 2013 in poi non esistono più le sedi tradizionalmente cardinalizie. Molto più semplicemente, dipende da chi è vescovo in quella sede. Quando la porpora fu negata all’allora arcivescovo di Bruxelles, mons. André Léonard, si disse che era finito il tempo della vecchia Europa, che ora si guardava alle periferie. Accolte le dimissioni di Léonard per raggiunti limiti d’età, il suo successore Jozef De Kesel, vicino all’emerito Godfried Danneels, fu immediatamente insignito del prestigioso riconoscimento. E’ tutto lecito, ovviamente: anche Pio X negò la porpora all’allora arcivescovo di Firenze, mons. Alfonso Mistrangelo, in odore di modernismo. I Papi sono liberi di creare cardinale chi vogliono, secondo loro criteri e senza – soprattutto – dover dare spiegazioni. Fattualmente, si vede come siano state lasciate fuori dal futuro Conclave sedi di primaria importanza (Los Angeles, Milano) solo perché i titolari non sembrano sintonizzati sulle frequenze di Francesco. E’ raro che un Pontefice “personalizzi” il Collegio: Giovanni Paolo II incluse anche personalità che pubblicamente dissentivano dalla sua agenda, e così fece anche Benedetto XVI. Bergoglio ha scelto una strada alternativa che, se ha consolidato una maggioranza di chiaro orientamento (si vedrà in futuro se è davvero solida o solo apparente), dall’altra parte ha alimentato delusioni, frustrazioni e risentimento. E lo stesso schema è stato adottato anche per il rinnovo del Consiglio cardinalizio che consiglia il Papa circa il governo della Chiesa universale: nessuna voce “critica”, solo tante eminenze che condividono con Francesco idee, progetti, sviluppi.

 

E’ un governo monarchico che ammette poche repliche, come s’è visto è l’opposto della tanto decantata collegialità episcopale che si vorrebbe porre a capo della Chiesa. Non sono stati anni facili, quelli che fin qui hanno visto l’ex arcivescovo di Buenos Aires guida la cattolicità. Sono stati gli anni della certificazione del crollo della pratica religiosa in buona parte del globo – processo che dura dalla fine degli anni Cinquanta, quindi non imputabile come evidente all’avvento del Pontefice argentino – vuoi per la crescente secolarizzazione delle masse occidentali, vuoi per situazioni contingenti come la pandemia, che hanno abituato tanti fedeli a una versione sui generis di Chiesa domestica, con la messa guardata in tv stando sul divano. Anche in questo senso va letto il richiamo costante alle periferie, che non sono meramente quelle geografiche, bensì culturali e sociali. L’Africa cresce, anche se in modo non di rado disordinato, l’Asia meno, le Americhe sono preda delle sette e l’Europa pare rassegnata a un destino fatto di minoranze (chissà quanto creative). E’ in questo contesto che si è mosso Francesco, è questa la situazione in cui si è trovato a tenere il timone della Barca. Un mondo lacerato da guerre senza fine, una Chiesa che non ha ancora compiuto la transizione postconciliare, il crollo della fede. Dinanzi a tale quadro, il Papa preso quasi alla fine del mondo ha alzato le tende dell’ospedale da campo. Alla Civiltà Cattolica, il Papa disse: “Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. E’ inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso. La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: ‘Gesù Cristo ti ha salvato!’. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia. Il confessore, ad esempio, corre sempre il pericolo di essere o troppo rigorista o troppo lasso. Nessuno dei due è misericordioso, perché nessuno dei due si fa veramente carico della persona. Il rigorista se ne lava le mani perché lo rimette al comandamento. Il lasso se ne lava le mani dicendo semplicemente ‘questo non è peccato’ o cose simili. Le persone vanno accompagnate, le ferite vanno curate”. Per comprendere la rotta impostata, si torna all’origine. Andando oltre le polemiche e gli incidenti, gli inciampi e le incomprensioni: “Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.