(Photo by John Moore/Getty Images) 

Cristiani contro

In Ucraina la guerra è santa e si fa in nome di Dio

La lotta metafisica fra Bene e Male descritta da Kirill si combatte su un terreno fatto di rivalità e odi profondi. L'impossibile mediazione del Papa

Matteo Matzuzzi

L’invasione russa ha riacceso le tensioni fra le diverse confessioni ortodosse che si contendono  il predominio spirituale a Kyiv. Un  intreccio di politica e religione dalle conseguenze apocalittiche

Raccontava a luglio il Monde che a Kryvy Rih, a una cinquantina di chilometri dal fronte, i preti che obbediscono al Patriarcato di Mosca si rifiutano di celebrare i funerali degli ucraini che hanno deciso di aderire alla Chiesa ortodossa ucraina. Cioè le esequie degli stessi cristiani che fino a qualche tempo fa condividevano la stessa Chiesa, gli stessi riti, gli stessi luoghi. I preti che se ne sono andati sono scomunicati con la più infamante delle accuse: quella d’aver tradito Dio. Perché qui Dio se lo contendono alla stregua di un trofeo, convinti un po’ tutti che sia dalla loro parte, quella della Verità. Il problema è sempre quello da due millenni, se lo domandava già Pilato: quid est veritas? Secondo il vescovo Efrem, che Kirill lo frequentava e lo sosteneva, la verità di sicuro non è quella di chi trasferisce i fedeli da una parrocchia all’altra, da quelle che celebrano la divina liturgia in slavonico a quelle che hanno scelto l’ucraino; da quelle che restano fedeli a Kirill a quelle che invece hanno trovato rifugio sotto al cappello di Bartolomeo di Costantinopoli. Efrem assicura che Kirill è cambiato, non è più quello di una volta ma che sono loro, quelli della Chiesa nazionale di Kyiv a fomentare il conflitto e l’odio intra religioso, tra vicini di casa: sì, è possibile che qualche prete si sia rifiutato di benedire i morti del fronte avverso, ma in quel caso è stato subito rimosso. E comunque loro, gli ortodossi d’obbedienza moscovita, sono stati esclusi dall’esercito “e solo i preti della Chiesa ucraina possono presiedere i funerali dei soldati e andare al fronte a benedire i militari”. La guerra che secondo il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie ha assunto una dimensione metafisica, come ebbe a dire in un’omelia quaresimale che di penitenziale aveva ben poco, per gli ucraini che vivono senza elettricità e riscaldamento, svegliati dai razzi che piovono sulle loro case, è questione ben più pratica e concreta: “Non vogliamo appartenere a una Chiesa di traditori filorussi”, spiegava un’insegnante in pensione di un villaggio a poca distanza da dove si spara. Lei è andata a cercare un prete che non facesse più omelie a favore “del nemico russo che viene a casa nostra e ci massacra” e l’ha trovato: padre Maksim, che adesso è minacciato – lui e la sua famiglia – per quello che il vescovo Efrem bolla come tradimento divino. “Ma io non ho tradito nessuno, ho solo accettato la richiesta dei miei parrocchiani”. Che sono, è fondamentale ribadirlo, tutti ortodossi. Tutti battezzati allo stesso fonte, come diceva Kirill quando era applaudito e considerato il più “europeo” di tutto l’alto clero moscovita. 

 

Allo sguardo occidentale possono sembrare dispute  del Primo millennio, quando le chiese s’arrovellavano  su questioni dogmatiche e non si facevano troppi scrupoli allorché si trattava di scomunicare qualche avversario, anche di rango. In Ucraina, oggi, la guerra è anche di religione. La scorsa settimana, Kyiv ha diffuso l’elenco degli ecclesiastici accusati di essere collaborazionisti con il nemico: dieci tra vescovi e semplici sacerdoti, tutti facente capo alla Chiesa ortodossa del Patriarcato di Mosca. Ci sono nomi più o meno celebri e fra questi ultimi spicca Petro Dmytrovych Lebid, vicario della Santa Dormizione nel monastero delle Grotte: un santuario considerato a ragione la culla del monachesimo ortodosso situato nella capitale ucraina. Ci sono sacerdoti e presuli delle città sul fronte, dall’est del paese alle regioni che s’affacciano sul Mar Nero. Le accuse sono identiche per tutti: collaborazionismo con le autorità di occupazione, promozione di narrazione filorussa, giustificazione dell’aggressione militare. Un segnale che Zelensky fa sul serio è giunto con la condanna a dodici anni di carcere comminata al capo della Chiesa ortodossa di Lysychansk. Secondo l’Sbu, il servizio segreto ucraino, ha passato informazioni agli occupanti sugli spostamenti delle truppe di Kyiv nella regione di Luhansk. Il moderno Efialte avrebbe agito proprio come colui che tradì gli spartani alle Termopili, consentendo ai russi di avanzare e arrecare danno alle truppe di Kyiv. Il sacerdote sarebbe poi stato reclutato dai russi già nel 2014 quando iniziò il conflitto seppure in maniera “ibrida”. I servizi segreti hanno confermato di aver trovato passaporti russi, materiale di propaganda anti ucraina – fra cui libri che negano l’esistenza del popolo ucraino – e una collezione di icone rubate durante le ispezioni condotte in tredici fra chiese e monasteri dipendenti dal Patriarcato di Mosca. Ci sono anche video che mostrano preti ortodossi intenti a inneggiare alla Russia. A Kherson, nella cattedrale della Dormizione, è stata rinvenuta la collezione di icone che i militari russi avevano rubato nella residenza del console lituano durante l’occupazione della città. Nei locali del monastero di Mykolaivsky Myeltsky, nell’oblast di Volyn, sono stati trovati testi di preghiere “per il benessere della Russia” e libri a sostegno di Vladimir Putin.

 

L’Sbu ha spiegato che le misure sono state adottate per evitare che le comunità religiose siano usate come centri di influenza russa e per proteggere la popolazione dalle provocazioni e dagli “attacchi terroristici”. Il 2 dicembre, Zelensky aveva firmato un decreto che – recependo le indicazioni del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale – mette al bando i gruppi religiosi affiliati alla Russia, imponendo sanzioni a diversi vescovi del Patriarcato moscovita. La norma è chiara: si tratta di rendere impossibile alle organizzazioni religiose affiliate a centri di influenza in Russia operare in Ucraina. Inoltre, si condurrà un’inchiesta governativa sulla Chiesa ortodossa ucraina e i suoi legami con Mosca. Se necessario, “saranno adottate misure legali” adeguate. Non si spiega però come si “renderà impossibile” l’attività di chi è sospettato di promuovere attività filorusse né si chiarisce se l’inchiesta riguarderà la Chiesa come corpo unico o se invece si andranno a cercare i traditori parrocchia per parrocchia. Non si elencano i criteri che qualificheranno i “traditori” né come si intende preservare la libertà religiosa garantita dalla locale Costituzione. La Carta fondamentale, infatti, pur prevedendo anche restrizioni “nell’interesse di proteggere l’ordine pubblico”, garantisce il diritto alla libertà di seguire una certa filosofia o una religione e, come conseguenza di ciò, “di seguire da soli o in modo collettivo e senza alcuna restrizione riti e cerimonie rituali e di condurre attività religiose”.

 

Sicuramente, come ha notato il New York Times, si tratta di una misura “popolare”. Dopotutto, un sondaggio dello scorso aprile documentava che il 74 per cento degli ucraini voleva che la Chiesa ortodossa ucraina tagliasse ogni legame con la Russia e il 51 per cento auspicava che fosse addirittura messa fuori legge. Secondo diversi osservatori, l’obiettivo finale della serie di provvedimenti adottati a Kyiv consisterebbe nell’esercitare una pressione insostenibile sulla Chiesa ortodossa ucraina dipendente da Kirill affinché dichiari la sua indipendenza. Il problema è che, come ha scritto il Kyiv Independent, per le regole dell’ortodossia cristiana solo una Chiesa indipendente – autocefala – può esistere in ogni specifico paese. Si comprende dunque che il taglio di ogni legame con Mosca comporterebbe la necessaria unificazione con la Chiesa ucraina autocefala benedetta da Bartolomeo I di Costantinopoli, quella che per Kirill semplicemente non esiste.

 

Dopotutto, i numeri sono ancora dalla sua parte: nonostante la Crimea, il Donbas e l’invasione dello scorso febbraio, le parrocchie ucraine affiliate al Patriarcato di Mosca sono circa undici-dodicimila. Quelle della Chiesa indipendente, settemila. I numeri sono comunque indicativi, la situazione è fluida come s’è visto: in certe zone, specialmente quelle lungo il fronte, le parrocchie sono formalmente “russe” anche se i rispettivi fedeli hanno scelto di affidarsi alle cure spirituali dei sacerdoti della Chiesa ortodossa ucraina indipendente. E sempre più richieste di “trasferimento”, in questo senso, si stanno manifestando con il progredire degli scontri. Il governo sa che recidere il cordone che lega la Chiesa ucraina a Mosca è decisivo: assesterebbe un colpo pressoché mortale a Kirill. “Se Mosca perde l’Ucraina, il Patriarcato diventa minoranza nell’ortodossia”, diceva al Foglio una settimana dopo l’invasione don Stefano Caprio, docente di cultura russa al Pontificio istituto orientale di Roma. Il settanta per cento degli ortodossi nel mondo risponde al Patriarcato di Mosca e fra questi il trentacinque per cento sono ucraini. L’Ucraina è fondamentale per Mosca, non a caso il patriarca vi si recava almeno tre volte all’anno prima dell’annessione della Crimea. C’è dunque un problema “pratico” che alimenta la tensione fra le Parti in conflitto e che è destinata ad aumentare dopo le recenti decisioni di Zelensky: togliere al Patriarcato di Mosca un terzo dei suoi fedeli (e delle sue parrocchie) significherebbe ridurlo all’irrilevanza.

 

Un danno incalcolabile anche – se non soprattutto – sul piano socio-culturale e a risentirne sarebbe tutto l’impianto ideologico costruito pazientemente da Kirill. Insomma, un colpo per il Russkij mir. Scriveva sempre Stefano Caprio, in un articolo pubblicato su Vita e pensiero (4/2022): “La versione più recente del sogno tardo-medievale della ‘Terza Roma’ è quella che ha effettivamente ispirato la guerra ‘difensiva’, ed è chiamata l’ideologia politico-religiosa del Russkij mir, il ‘Mondo russo’. Come ai tempi di Ivan il Terribile la Russia doveva difendere l’umanità ‘dall’eresia, dalle invasioni e dalla sodomia’, secondo la formula del monaco Filofej di Pskov, adesso si tratta di salvarsi dalla colonizzazione occidentale chiamata ‘globalizzazione’ e dalla degradazione morale che si vuole imporre anche alla santa Russia”. Caprio cita il celebre discorso di Kirill pronunciato durante una liturgia solenne, “per spiegare che ‘vogliono imporci un modo di vivere a noi estraneo, i cosiddetti valori che vengono offerti da chi pretende di possedere il potere mondiale’”. Dunque, “si rievoca la condanna medievale della sodomia per saldare gli antichi ideali con la nuova visione del mondo, in cui la Russia di Putin e Kirill guida la rivolta dei popoli ‘sovranisti’ e identitari contro la dissoluzione voluta dai padroni del mondo americani ed europei”. In gioco, si può dire, c’è “la purezza morale” che Kirill per conto della Russia si ripromette di difendere a tutti i costi nello spazio culturale, geografico e religioso che considera suo e unico. Ma se perdesse l’Ucraina, il castello crollerebbe. E’ quell’ideologia che ora Kyiv vuole colpire: “La guerra russa contro l’Ucraina ha una chiara struttura ideologica, il Russkij mir”, diceva a questo giornale Sviatoslav Shevchuk, il capo e padre della Chiesa greco-cattolica ucraina. Un’ideologia che, sottolineava Shevchuk, “nega il diritto all’esistenza del popolo ucraino, come un tempo l’ideologia della Germania nazista ha fatto con il popolo ebraico”.

 

Mosca, com’era prevedibile, ha reagito puntando tutto sull’elemento religioso: le autorità ucraine, ha scritto su Telegram l’ex presidente Dmitri Medvedev, “sono diventate apertamente nemiche di Cristo e della fede ortodossa”, paragonando il governo di Kyiv a una congrega di seguaci hitleriani e satanisti. Più posato, ma non per questo meno duro, il commento di Vladimir Legoyda, portavoce del Patriarcato: a suo giudizio, la proposta di Zelensky viola sia il diritto internazionale sia il senso comune. La questione è drammatica: il governo manda “un chiaro segnale alla leadership della Chiesa affinché decida se essa è una Chiesa del popolo ucraino o se sostiene la visione russa del mondo”, ha detto al Nyt Ihor Kozlovsky, teologo della Shevchenko Scientific Society, di base a New York. Non si tratta, sostiene, di vietare a una confessione religiosa di fare quel che dovrebbe fare in modo libero: “Non siamo la Russia”, che invece lo proibisce. Riassume la faccenda il teologo Nicholas Denysenko: “Bisogna decidere davvero da che parte stare”. Gli occhi sono dunque puntati su quel che farà la Chiesa ortodossa ucraina dipendente da Mosca, quella cioè che si trova più in difficoltà: dipende da Kirill ma è fatta da ucraini e “vive” in Ucraina. La gerarchia rispedisce innervosita al mittente le accuse di doppiogiochismo e ribadisce che già dalla scorsa primavera sono state prese le dovute distanze dal Patriarca e dalla sua guerra “metafisica”.

 

Lo stesso metropolita Onufri chiese pubblicamente a Kirill di intervenire per porre fine “immediatamente allo spargimento di sangue fratricida”, arrivando anche ad accusarlo di “ripetere il peccato di Caino, che uccise il proprio fratello per invidia”. Non solo: a maggio, la Chiesa ortodossa ucraina si era dichiarata autonoma rispetto al controllo di Mosca, benché a Kyiv non abbiano mai creduto fino in fondo alla mossa, come dimostrano le inchieste di queste ultime settimane nelle parrocchie e nei monasteri facenti capo a Onufri. C’è la Chiesa autocefala, ucraina, senza più vincoli con la Russa: perché non scegliere di aderire a quella? Il governo se lo augura, dopotutto fu l’allora presidente Petro Poroshenko già dal 2018 a capire l’importanza (e l’utilità) di tagliare ogni ponte con l’ingombrante vicino. Guardò subito a Costantinopoli, l’eterna rivale di Mosca per la contesa della primazia sull’ortodossia cristiana. E Costantinopoli, nel 2019, diede la propria benedizione, riconoscendo l’indipendenza della Chiesa ucraina e accettando l’ovvia conseguenza della mossa, la rottura della comunione con il Patriarcato moscovita.

 

Dopotutto, fino alla fine del Diciasettesimo secolo, Kyiv dipendeva canonicamente proprio da Costantinopoli. Passò sotto Mosca solo a seguito dei mutamenti geopolitici che interessarono l’area. Venne così a delinearsi una guerra tra la seconda e terza Roma giocata sul suolo ucraino, nella lotta tra le parrocchie, le rispettive obbedienze, la lingua da usare nelle liturgie. Una guerra che dall’oriente europeo si è spostata in Africa, con la corsa ad accaparrarsi la fedeltà dei vescovi locali, a Cipro, in Grecia. Poroshenko reagì parlando di un “nuovo battesimo  della Rus’”, e la nascita di “una Chiesa senza Putin, ma una Chiesa con Dio e con l’Ucraina”. Sembrano dissertazioni teologiche, in realtà “è l’autocefalia della Chiesa ucraina il nodo attorno a cui si stringono i problemi dell’ortodossia contemporanea”, ha scritto sulla Rivista del Mulino Adalberto Mainardi, esperto di storia della Chiesa russa, ecumenismo e spiritualità ortodossa. “Nel 2016 – aggiungeva – il concilio panortodosso di Creta non riusciva ad affrontare il problema di quale Chiesa avesse il diritto di concedere a un’altra l’autocefalia (cioè la piena indipendenza): il patriarca ecumenico di Costantinopoli? O la Chiesa madre? O l’insieme delle Chiese ortodosse? Per motivi diversi, quattro Chiese ortodosse disertarono l’assise di Creta: Mosca, Antiochia, la Chiesa ortodossa bulgara e la Chiesa di Georgia. A livello panortodosso, il problema canonico della concessione dell’autocefalia rimase irrisolto e lo scisma della Chiesa ucraina drammaticamente aperto”.

 

A ogni modo, una volta riconosciuta l’autocefalia della Chiesa ucraina, le mire si spostarono subito sulla ben più corposa Chiesa dipendente dal Patriarcato moscovita. Gli anni passarono fra attacchi e discriminazioni e progetti di legge che miravano a cambiarne perfino denominazione (avrebbe dovuto diventare “Chiesa ortodossa russa in Ucraina”). Scrive ancora Mainardi che “la guerra di Putin ha agito come detonatore in una situazione ecclesiale attraversata da tensioni irrisolte. Le reazioni delle Chiese le hanno rese manifeste”. In mezzo, poi, c’è anche la Chiesa greco-cattolica, costretta alla clandestinità da Stalin, con i suoi milioni di fedeli per lo più residenti nelle regioni occidentali.

 

E’ su questo terreno, dunque, che dovrebbe svolgersi l’opera di mediazione della Santa Sede, secondo gli auspici di chi guarda le cose da fuori. Una mediazione che dovrà intrecciare il piano politico con quello – complicatissimo – spirituale. Perché mai come in Ucraina, oggi, la guerra è anche di religione. Lo abbiamo visto: parrocchie contese, preti cacciati, obbedienze all’uno o all’altro patriarca messe in discussione. L’Ucraina come l’Europa del Cinquecento, lacerata tra papisti e luterani, con i principi che a turno si dichiaravano membri di una delle fazioni in battaglia. Kirill ha già detto, fin dalle prime settimane successive all’invasione, che è una lotta fra il Bene e il Male, in gioco c’è “la salvezza umana”. E’ proprio tale quadro che fa comprendere come un intervento del Vaticano, su consenso delle Parti, sarebbe una specie di miracolo. Troppe caselle devono incastrarsi, troppi passi indietro russi e ucraini dovrebbero fare. Per giunta, poi, affidando al Papa di Roma – lo stesso che già a Sarajevo, nel 2015, diceva che “si percepisce un clima di guerra” che qualcuno “vuole creare e fomentare deliberatamente” – il compito di far sedere allo stesso tavolo Mosca e Kyiv.

 

Come può, Kirill, “il chierichetto di Putin”, dare il suo benestare? Finora, specie dopo la lugubre omelia d’inizio quaresima, pur di mantenere salda a casa sua l’alleanza fra trono e altare ha mandato giù ogni amarissimo boccone che veniva portato sulla sua mensa: ha visto la reazione del clero a lui obbediente in Ucraina, con i preti che non lo menzionano più nelle divine liturgie. Ha letto la lettera dei quattrocento teologi ortodossi che definiscono eretica la sua teoria del “Mondo russo”. Ha perso migliaia di parrocchie in territorio ucraino, nessuno in occidente lo considera più il volto “buono” del sistema putiniano, il patriarca pragmatico che ammira la Chiesa cattolica e cerca proficui rapporti con l’Europa. Kirill ha perso quasi tutto e di certo non può permettersi di affidare al Papa – che non ha voluto incontrare in Kazakhstan, lo scorso settembre – la mediazione. Mediazione che, in ogni caso, dovrebbe fare i conti con rancori che nessun accordo firmato al tavolo delle trattative potrà cancellare. La storia insegna, anche quella più recente: diceva padre Pierbattista Pizzaballa, ai tempi in cui era custode di Terrasanta, che l’odio tra vicini di casa scaturito dagli anni in cui il Califfato islamico prosperava fra la Siria e l’Iraq durerà decenni.

 

Pochi giorni fa, il segretario di stato Pietro Parolin ha ribadito la disponibilità della Santa Sede a farsi mediatrice: “Siamo pronti, il Vaticano potrebbe essere la sede giusta per questo. Cercavamo opportunità per offrire un incontro tra le Parti e allo stesso tempo mantenere un equilibrio. Il nostro desiderio è offrire un luogo di dialogo senza precondizioni”. Proposta subito rispedita al mittente dai russi, con la portavoce del ministro degli Esteri Sergei Lavrov che non ha difettato di ironia: “La Russia non può considerare il Vaticano come un luogo per possibili negoziati fra i rappresentanti di Mosca e Kyiv. Temo che i fratelli ceceni e buriati non l’apprezzerebbero”. Il riferimento è a quanto il Papa ha detto in un’intervista concessa ad America magazine poche settimane fa, in cui per la prima volta ha esplicitamente fatto il nome della Russia come stato aggressore e invasore. Francesco ha però cercato di “salvare” in qualche modo l’umanesimo russo, scaricando la “colpa” sulla brutalità di ceceni e buriati – “I più crudeli sono forse quelli che vengono dalla Russia ma non dalla tradizione russa, come i ceceni, i buriati e così via”. Per molti una gaffe, non per Stefano Caprio, che su Asia News ha dato una diversa interpretazione: “Se si accusa lo stato russo di crudeltà nell’aggressione, tirando in ballo le truppe che tutti sanno essere frutto di una cinica strumentalizzazione dall’alto, questo significa condannare proprio coloro che hanno sfruttato la miseria e la disperazione di popolazioni emarginate”. In ogni caso, da Mosca hannof atto sapere che il Papa “ha chiesto scusa”. 

 

L’arcivescovo maggiore greco-cattolico di Kyiv, Shevchuk, ricevuto dal Papa all’inizio di novembre, ha ribadito all’interlocutore che di Putin non ci si può fidare: “La guerra in Ucraina è una guerra coloniale e le proposte di pace che vengono dalla Russia sono proposte di pacificazione coloniale. Queste proposte implicano la negazione dell’esistenza del popolo ucraino, della sua storia, cultura e anche la Chiesa. E’ la negazione dello stesso diritto all’esistenza dello stato ucraino, riconosciuto dalla comunità internazionale con la sua sovranità e integrità territoriale. Su queste premesse, le proposte della Russia mancano di un soggetto di dialogo”. Shevchuk ha quindi chiesto a Francesco: “Sa cosa dicono di lei in Ucraina? Che non ha letto bene Dostoevskij”, lasciando interdetto il Pontefice che ha chiesto spiegazioni. Immediata la risposta: “Molto spesso il mondo occidentale, il mondo romano, il mondo ecclesiastico, il mondo intellettuale, hanno idee romantiche sulla Russia, formatesi nel corso degli anni. Ho detto al Papa che le sue parole mi hanno ricordato certe idee romantiche sulla Germania negli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale. Quando si sentiva la parola ‘Germania’, si pensava subito alla filosofia tedesca del Diciannovesimo secolo, alto esempio della cultura tedesca. Però, al potere c’erano i nazisti e il mondo si domandava come un popolo con una cultura così alta avesse potuto creare Auschwitz e fosse la causa del grande Olocausto. Questo è esattamente ciò che sta accadendo in Russia, dove i criminali nazisti sono al potere. E il mondo oggi sta assistendo ai crimini contro il popolo ucraino, un genocidio”.

 

Nasce da qui l’idea di scrivere la lettera agli ucraini in occasione del nono mese dall’invasione “disumana”: “Io vorrei unire le mie lacrime alle vostre e dirvi che non c’è giorno in cui non vi sia vicino e non vi porti nel mio cuore e nella mia preghiera. Il vostro dolore è il mio dolore. Nella croce di Gesù oggi vedo voi, voi che soffrite il terrore scatenato da questa aggressione. Sì, la croce che ha torturato il Signore rivive nelle torture rinvenute sui cadaveri, nelle fosse comuni scoperte in varie città, in quelle e in tante altre immagini cruente che ci sono entrate nell’anima, che fanno levare un grido: perché? Come possono degli uomini trattare così altri uomini?”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.