La realpolitik del Papa

La discontinuità  in politica estera rispetto all'ultimo mezzo secolo è un fatto. Positivo o negativo, lo dirà il tempo. Un libro

Matteo Matzuzzi

I rapporti con l’islam e i silenzi sulla Cina, i malintesi con gli Stati Uniti e l’Europa. Come la visione internazionale della Santa Sede è cambiata dai tempi di Giovanni Paolo II. La continuità non è un dogma e la realtà lo dimostra

Oltre che a Niccolò Machiavelli, l’enciclopedia Treccani ricorda che la celebre massima “il fine giustifica i mezzi” è sovente attribuita ai gesuiti, spiegando subito che in realtà prove materiali e scritte a sostegno della tesi non ve ne sono. Qualcosa di simile, però, lo si ritrova nel più importante documento del pontificato di Francesco, che  è l’esortazione post sinodale Evangelii gaudium pubblicata nel novembre del 2013; un programma chiarissimo dei processi che Jorge Mario Bergoglio vuole avviare per giungere a una meta ancora indefinita e non stabilita. Un documento centrale, di cui si parla sempre poco, che si cita una tantum, ma che nel complesso è stato subito archiviato nel dibattito pubblico. Eppure, meriterebbe più spazio e riflessione di quello solitamente concesso alle periodiche interviste a giornali o televisioni, sempre inclini – è una costante del pontificato di Francesco – a essere interpretate, rielaborate, contestualizzate. 

 

Nell’esortazione, il Papa scrive che tra i princìpi cardine del suo agire si deve ricordare che “l’unità prevale sul conflitto” e che, soprattutto, “la realtà è più importante dell’idea”. Parole che, prese fuori contesto, potrebbero a ragione sembrare enigmatiche, eteree e complicate, ma che in realtà sono chiarissime e definiscono un programma, una visione. Sono concetti che calati nella realtà quotidiana della Chiesa, nel suo stare nel mondo, definiscono la linea di condotta perseguita anche nei rapporti internazionali, come s’è visto nel capitolo precedente. Dopotutto, già nella sua prima intervista concessa alla Civiltà cattolica nell’estate del 2013, pochi mesi dopo l’elezione, Francesco aveva detto che “Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa”. 

 

Di tale propensione se ne ebbe dimostrazione nel febbraio del 2016, quando nell’insolita cornice dell’aeroporto José Martí, all’Avana, si incontrarono il Papa e il Patriarca di Mosca Kirill. Evento storico, svoltosi sotto lo sguardo di Raúl Castro nelle vesti di notaio. Roma e Mosca finalmente insieme, sedute accanto e intente a siglare una “Dichiarazione comune” inimmaginabile solo fino a pochi anni prima. Quel che non era riuscito né al Papa slavo, Giovanni Paolo II, né a Benedetto XVI che l’ortodossia moscovita apprezzava parecchio, era riuscito al Pontefice preso alla fine del mondo, tra le villas miseria di Buenos Aires. Al di là delle photo opportunity e dell’immancabile – e in questo caso giusta – dose di retorica, il fatto che più colpì gli osservatori attenti alle cose di Chiesa era il contenuto del documento: del punto di vista vaticano c’era ben poco, sembrava quasi che Francesco si fosse limitato a firmare una lettera scritta al Cremlino e portata a Cuba da Kirill. Nessun accenno alla crisi del Donbass, poco o nulla sulla complicata vicenda dei greco-cattolici locali. Sulla famiglia, toni durissimi che avrebbero fatto impallidire perfino i più intransigenti conservatori protagonisti del doppio Sinodo romano del biennio 2014-2015 che tanti grattacapi aveva dato al Papa con la spaccatura tra i padri sinodali e una conta all’ultimo voto tra i favorevoli e i contrari ai cambiamenti sulla morale famigliare. In particolare, in gioco – e fu questo il tema che più infiammò lo scontro – c’era l’opportunità di concedere l’accostamento alla comunione dei divorziati risposati. La comunità greco-cattolica ucraina, che già lamentava l’aggressione russa con annessione della Crimea, restò sbigottita, e non a caso l’arcivescovo maggiore di Kiev-Halyc, Sviatoslav Shevcuk, si prodigò rapidamente nel gettare acqua sul fuoco, invitando i confratelli a “non fare drammi” ed esortandoli a enfatizzare piuttosto la dimensione spirituale dell’evento. Non pochi, però, parlarono sottovoce di una Roma che aveva sacrificato i fedeli ucraini sull’altare dell’alleanza con Mosca. Alleanza religiosa e politica, come dimostrò la lunga fase di intesa che il Papa ebbe con Vladimir Putin.

 

Il fatto, elementare, è che alla Santa Sede importava poco dei contenuti protocollati: più che le idee contava la realtà, e la realtà era che dopo un millennio il Papa e il Patriarca di Mosca potevano stare seduti l’uno al fianco dell’altro, dando un impulso di assoluto rilievo, che però non si sarebbe poi rivelato decisivo, considerando gli sviluppi successivi pressoché assenti, al dialogo bilaterale. Si trattava insomma di gene- rare un processo – altra massima del pontificato bergogliano – di aprire una porta e di entrarvi senza per forza di cose sapere prima cosa attenderà in fondo al corridoio. La politica dei primi passi, essenziali perché la Chiesa non stia ferma a venerare le proprie ceneri e a badare alla polvere che cresce sui suoi arazzi gloriosi impregnati di storia

 

Il politologo americano Hans Morgenthau, tra i principali teorici del realismo politico, scrisse che “i princìpi morali devono essere filtrati dalle circostanze concrete di tempo e di luogo” e che solo “il concetto di interesse permette di comprendere in modo razionale la politica”. Morgenthau aveva una visione pessimista delle cose del mondo e, in fin dei conti, dell’uomo. Visione che mal si addice a quella della Chiesa, naturalmente, ma che paradossalmente si adatta perfettamente all’attuale corso della diplomazia vaticana. George Weigel, tra i massimi esponenti del cattolicesimo americano neocon, ha sposato in modo convinto la tesi secondo cui in questo pontificato sarebbe tornata trionfante la realpolitik vaticana. Weigel ha infatti scritto che “l’elezione del cardinale Jorge Mario Bergoglio non ha cambiato la mentalità ‘casaroliana’ che domina la diplomazia vaticana, anzi, è accaduto il contrario”. Bergoglio, proseguiva il biografo di Giovanni Paolo II, non aveva esperienza di politica mondiale e fin dall’inizio del suo pontificato chiariva di ritenere che il “dialogo”, forse la sua parola preferita quando parlava di affari internazionali, fosse possibile con personalità del calibro di Vladimir Putin, Bashar el Assad, Nicolas Maduro e Raúl Castro. Così, “sotto Francesco l’approccio accomodante di Casaroli alla diplomazia vaticana è tornato alla grande, mentre i risultati rivoluzionari di Giovanni Paolo II, il risultato di una leadership morale carismatica, sembrano essere praticamente ignorati dai diplomatici di alto livello della Chiesa. E uno dei risultati di quel ritorno è la nuova iniziativa con la Cina, che gli italiani di alto livello tra i diplomatici vaticani considerano una potenza mondiale emergente con cui devono ‘giocare’”. Si è tanto e giustamente discusso di riforme della curia vaticana, di nuovi rapporti con le chiese locali, un possibile nuovo modo di intende- re – per così dire – il pontificato.

 

Ma è qui, nella “rivoluzione della misericordia”, per abusare di una formula molto mediatica udita assai spesso in questi anni, che si trova il punto di svolta. Un principio che orienta tutto e che dà forza a uno dei punti qualificanti dell’agenda di Bergoglio, quello che vede appunto la realtà essere superiore all’idea. Ora si comprende meglio il significato di quello che non è uno slogan bensì un muro portante della linea adottata dal Papa: la realtà per come essa è va sempre anteposta all’idea e all’ideale, ai princìpi che si considerano fissi e immutabili. E che sono, non di rado, ammantati di un velo di malsana ipocrisia. Allora, la domanda che Francesco si fa, anche nel relazionarsi all’altro inteso come interlocutore “internazionale”, è semplice da intendere: perché piantare paletti e ribadire che la propria posizione è circondata da muretti e in qualche caso pure dal filo spinato e che, insomma, c’è ben poco di cui discutere? Si cerchino invece i punti di contatto, anche a costo di dolorose concessioni. Poi, se il dialogo sarà propizio, un modo per risolvere la discordia si troverà. In una parola: pragmatismo. Quel pragmatismo che però cozza con la “diplomazia della verità” di ratzingeriana memoria e che poco ha anche a che vedere con la linea perseguita negli anni di Giovanni Paolo II, che pur avvalendosi di Casaroli come segretario di Stato per un decennio, ben presto archiviò la Ostpolitik e i suoi correlati. Il pragmatismo porta a tuffarsi al largo, spesso anche in acque profonde e ignote, senza sapere cosa potrà accadere, quali potranno essere gli sviluppi dell’azzardo. E’ un rischio, consapevole e in qualche caso calcolato. Ma che ha conseguenze rilevanti sia sul piano prettamente diplomatico sia su quello intraecclesiale e spesso le azioni lasciano ferite che stentano a cicatrizzare. Piaghe dolorose che sovente rendono complicato il rapporto tra la Chiesa e una parte del suo popolo, tra Roma e il clero coinvolto. Decisioni e linee d’azione non sempre comprese. Non è una novità, se è vero che ancora la storiografia è impegnata nel valutare il comportamento di Pio XII e i suoi “silenzi” nei tempi bui delle persecuzioni nazifasciste.

 

La primavera diplomatica del pontificato di Francesco, come s’è detto, è dovuta a un attivismo a tutto campo fatto di azioni concrete e politiche – ne sanno qualcosa le potenze occidentali che sul finire dell’estate del 2013 si trovarono il Papa che chiamava a raccolta i cattolici contro gli allora imminenti bombardamenti sulla Siria di Assad – di denunce sonore ma anche di silenzi. Qualche volta giudicati incomprensibili se, appunto, rapportati con l’attivismo di cui la Santa Sede è ora protagonista. Gli esempi non mancano. Tornando all’analisi di Morgenthau, scomparso nel 1980, qualcosa che si possa applicare anche alla realtà ecclesiale dei nostri tempi c’è eccome. Si pensi al grande avvicinamento del pontificato di Francesco alla Cina di Xi Jinping. Due mondi che più distanti non potrebbero essere, da una parte la Santa Sede, cattolica e apostolica, dall’altra il più grande regime comunista presente sul pianeta. Realtà inconciliabili non solo su un piano prettamente politico – come è ovvio – ma anche su quello culturale e sociale. Secondo le statistiche realizzate nel corso degli anni da organizzazioni indipendenti, la Cina sarebbe il paese più cristiano sulla faccia della Terra. Un rapporto del Council on Foreign Relations ha rilevato che “il numero dei cristiani nei primi anni Ottanta era stimato in circa sei milioni” e “oggi le stime variano ampiamente: il governo conta ventinove milioni di aderenti cristiani, mentre le organizzazioni esterne hanno posto le loro stime più in alto”. Nel 2010, il Pew Research Center ha calcolato sessantotto milioni di cristiani in Cina, pari a circa il cinque per cento della popolazione. Altre stime indipendenti suggeriscono una forbice che va dai cento ai centotrenta milioni. Secondo ulteriori analisi, tutte naturalmente esterne al paese asiatico, entro il 2025 i cristiani cinesi potrebbero essere centosessanta milioni, per toccare la cifra di duecentoquarantasette milioni entro il 2030, ammesso che il tasso di crescita resti costante. La discrepanza è comunque evidente, ma secondo il Council on Foreign Relations ciò è dovuto al fatto che il regime non riconosce i cristiani “impegnati in attività religiose al di fuori delle organizzazioni religiose controllate dallo Stato”. La ripresa della pratica religiosa nel grande paese orientale non è questione degli ultimi anni, ma risale alla fine della Rivoluzione culturale. Impensabile, dunque, per la Chiesa di Roma, fare finta che Pechino non esista; essere cioè universali (cattolici) senza considerare il gigante asiatico. Queste sono valutazioni geopolitiche ma che contano anche ai fini cosiddetti “pastorali”: Roma ha detto fin dall’inizio del suo approccio e lento avvicinamento alla Cina che il negoziato riguarda esclusivamente la vita della Chiesa in Oriente. Si tratta di discutere e stabilire un dialogo finalizzato a regolare il funzionamento delle diocesi e le nomine episcopali.

 

Che poi da ciò possano sorgere sviluppi diplomatici – come ad esempio il ristabilimento di normali relazioni – lo si vedrà. In questo contesto, insomma, la possibilità di un viaggio del Papa a Pechino è solo un elemento fra i tanti presenti sul tavolo, e di certo non il più importante, anche perché il percorso è lungo e assai accidentato. Gli ostacoli sono ben evidenti su entrambi i campi, sia nel Politburo comunista dove non pochi guardano con sospetto alle aperture verso Roma “potenza straniera”, sia nella comunità cattolica cinese cosiddetta sotterranea, capeggiata dal vescovo emerito di Hong Kong, il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, contrario a ogni appeasement nei confronti di chi passa il tempo a chiudere chiese, arrestare sacerdoti e a smontare croci dai campanili. Però si va avanti, nonostante le evidenti difficoltà. L’Accordo con Pechino è in vigore, i vescovi si nominano di concerto tra le parti. Per ora il bicchiere è pieno soprattutto se osservato dal punto di vista cinese, come era immaginabile, ma il Vaticano non dispera con gli anni di migliorare la situazione. 

 

Anche qui, l’importante è generare processi nella consapevolezza che il tempo è sempre superiore allo spazio. Non bisogna puntare a obiettivi immediati, bensì andare al largo, iniziare un cammino senza alcuna preclusione ideologica. E qui torna utile Morgenthau, perché se vogliamo uscire dal linguaggio ecclesiastico forbito e naturalmente improntato alla positività, è necessario considerare un termine che ormai ha un connotato negativo da qualunque parte lo si consideri: il realismo politico. La Santa Sede può muoversi seguendo la realpolitik?

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.