Il cardinale Joseph Zen, qui in una manifestazione di alcuni anni fa per la libertà religiosa in Cina (foto Reuters)

La Cina spiegata al Papa

Matteo Matzuzzi

La resistenza di Hong Kong al pugno di ferro cinese, la lotta per la libertà e la critica agli accordi segreti tra la Santa Sede e Pechino. “Siamo scesi in piazza per svegliare le coscienze, il mondo deve capire cosa sta accadendo”. Intervista al cardinale Joseph Zen

“Alla mia età non ho certo il piacere di dire queste cose, ma io devo parlare. Il mio dovere è questo. Conosco la Chiesa in Cina e conosco la Santa Sede, non posso tacere”. Il cardinale Joseph Zen Ze-kiun sorride quando gli si fa notare che lui, a ottantott’anni compiuti, è la voce della minoranza che si oppone a ogni forma di dialogo con le autorità di Pechino. In prima fila al fianco dei dimostranti a Hong Kong, dove è stato vescovo. In conferenze, presìdi, eventi che come unico fine hanno quello di raccontare cos’è davvero la Cina: l’opposto del Paradiso in terra. Una paese immenso dove l’unico culto davvero consentito è quello del Partito cui le religioni – tutte – devono sottomettersi. Salvando magari la faccia attraverso qualche accordo (di solito segreto) con chi quelle religioni le rappresenta e che, nell’ottica di Pechino, restano sempre agenti esterni, stranieri.

 

Salesiano, ordinato prete a Torino nel 1961, Zen racconta al Foglio nel suo perfetto italiano cosa sta accadendo nella città autonoma che sempre più sente allungarsi la mano cinese. “Siamo alla fine di una grande battaglia. La Cina ci aveva promesso che avremmo goduto di un alto grado di autonomia, ma in realtà questa è rimasta solo una vana promessa. La basic law prevede che la legge per la sicurezza nazionale – quella che ci vogliono imporre – dovrebbe essere emanata dalle autorità di Hong Kong. Nel 2003, quando si iniziò a parlare dell’argomento, fu presentata una bozza che non definirei in altro modo se non orribile: tutte le libertà erano minacciate e ci era stato lasciato pochissimo tempo per studiare e consultarci. Il popolo si sollevò e il progetto fu ritirato. Chiariamo: noi non eravamo e non siamo contro una legge in sé, bensì lottiamo contro quella legge. Ci muoveva la considerazione che in primo luogo ci dovesse essere un governo eletto dal popolo, ma anche su questo le autorità si sono rimangiate la parola data. Un passo alla volta hanno rinnegato tutto ed è ovvio che senza un governo democraticamente eletto non si può nutrire alcuna fiducia sul fatto che una legge sulla sicurezza possa essere davvero equa. E’ stato un lungo percorso in cui sono capitate tante cose: abbiamo marciato e in qualche caso abbiamo visto atti di disobbedienza civile, per lo più senza il ricorso ad alcuna violenza. Atti che servivano per svegliare le coscienze, per far capire al mondo che qui il problema è enorme. Gli studenti hanno occupato il centro della città, ma senza alcun risultato. Il governo non ha paura. Non abbiamo ottenuto niente, se non vedere tanti ragazzi essere messi in prigione. Quando le autorità hanno proposto la legge per l’estradizione, cioè di deportare in Cina chi disobbedisce a Pechino, la reazione è stata scontata così come l’ennesima azione di forza dello stato, che ha schiacciato ogni forma di protesta. Certo, diversi giovani usano la violenza, anche se la grande maggioranza di chi si oppone lo fa pacificamente. La polizia viene incoraggiata dal governo centrale, sono come bestie. Abbiamo ogni giorno giovani picchiati e arrestati. Ora sembra che la situazione sia più quieta, sarà anche per la pandemia, ma la rabbia nel popolo c’è. Le autorità pensano che tutto debba essere schiacciato per imporci una legge fatta da loro. Non c’è nulla di buono da aspettarsi e noi non possiamo opporci se non con la voce. Ma ci vogliono togliere pure quella”.

  

  

Il rischio è che il pugno di Pechino, alla fine, porti anche a Hong Kong le limitazioni alla libertà di culto che sono la prassi nel regno di Xi Jinping, e che a fasi alterne negli ultimi settant’anni sono state ora più severe ora più morbide. Il cardinale Zen di questo è convinto: “Non c’è libertà religiosa perché non c’è libertà. Noi, e lo ripeto, non dobbiamo aspettarci nulla. In Cina perseguitano le chiese perché non c’è libertà per nessuno. Purtroppo, sia a Hong Kong sia a Roma, si cerca di rabbonire Pechino, mostrandosi così arrendevoli. In questi ultimi anni non una parola di rimprovero è giunta da Roma riguardo a tutte le malvagità commesse dalla Cina. Tutto il mondo vede come i giovani vengono picchiati, tutti. Nel silenzio generale”.

  

 

La questione è comunque complessa, tanti osservatori, soprattutto in Italia, vedono le cose in modo diverso. Il professor Agostino Giovagnoli, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano, scriveva lo scorso autunno che “è la mancanza di prospettive a rendere così violenta la protesta. Ma la rabbia non è una buona consigliera. La durezza dello scontro ha creato una ferita profonda nel tessuto di Hong Kong, suscitando una contrapposizione insanabile tra gli studenti e la polizia che da mesi si fronteggiano in un conflitto sempre più esasperato. (…) Trasformare l’università in una trincea di resistenza e in uno spazio da difendere a oltranza li ha portati a rinchiudersi in un’area che la polizia ha avuto buon gioco a mettere sotto assedio. Questo sbocco è emblematico di un più complessivo esito delle proteste di questi mesi”. “E’ necessario – proseguiva Giovagnoli – avviare una riflessione più lucida e un’analisi più profonda. A chi giova tutto questo? Forse a nessuno e soprattutto non giova agli studenti che protestano e agli abitanti di Hong Kong nel loro complesso. Le prese di posizione internazionali sono condivisibili se mirano a ottenere clemenza per i giovani coinvolti nelle proteste di questi mesi. Ma diventano discutibili se vogliono suggerire che l’occidente possa o voglia giocare un ruolo vero in questa partita. Il futuro di Hong Kong è la Cina non l’occidente”.

“Molti che soffiano sul fuoco sembrano agire come se non fosse così. In questo modo però – aggiungeva Giovagnoli – ingannano i giovani che protestano e non li aiutano a costruire un futuro migliore dentro un orizzonte che lo stesso occidente ha contribuito a costruire, che si è ormai consolidato e che appare oggi segnato”.

  

Il cardinale Zen è assai critico nei confronti dell’atteggiamento della Santa Sede sul dossier cinese. La novella Ostpolitik vaticana non gli piace, non ci vede alcun lato positivo: altro non è che un appeasement, una resa senza condizioni. Prova ne è che la cattedra di Hong Kong è vacante da un anno e mezzo, da quando cioè è morto (gennaio 2019) il vescovo Michael Yeung Ming-cheung. Nei mesi scorsi s’era diffusa la voce che il successore era stato finalmente individuato nella persona di padre Peter Choy, ma che l’annuncio era stato rimandato temendo le reazioni della piazza: Choy, infatti, è descritto come molto sensibile alle ragioni dell’ala dialogante, sponsorizzato dal cardinale John Tong, attuale amministratore apostolico, e opposto alla linea della fermezza impersonata dal cardinale Zen e dal vescovo ausiliare Joseph Ha, pure lui “candidato” alla cattedra ma bloccato proprio perché inviso a Pechino. “Non so nulla, sono ormai fuori da tutto e non mi viene detto nulla di quanto si sta facendo”, dice al Foglio Zen, che però, in qualche modo, avvalora le indiscrezioni su Choy: “Si sta forse aspettando di nominare qualcuno che attenda la benedizione di Pechino? Noi abbiamo bisogno di un vescovo che da Pechino ci difenda”.

 

 

 

La delusione maggiore gliel’ha data il Vaticano, che due anni fa – l’anniversario cadrà a settembre – ha sottoscritto un Accordo provvisorio (e segreto) relativo alla nomina dei vescovi nel grande paese asiatico. Bisognerà intanto capire se l’Accordo sarà rinnovato – il che viene dato per scontato – ma soprattutto quando ciò accadrà: non è escluso che, complice la pandemia, la provvisorietà venga estesa di un anno (o forse due) ed eventuali migliorie saranno apportate solo nel 2021-’22. A ogni modo “quell’Accordo non è la cosa peggiore, quanto dispone più o meno lo si faceva già”, spiega il cardinale Zen. “E’ invece molto grave che la Santa Sede abbia legittimato quelle sette persone che ora sono riconosciute come veri vescovi”. Il riferimento del vescovo emerito di Hong Kong è ai monsignori Giuseppe Guo Jincai, Giuseppe Huang Bingzhang, Paolo Lei Shiyin, Giuseppe Liu Xinhong, Giuseppe Ma Yinglin, Giuseppe Yue Fusheng, Vincenzo Zhan Silu e Antonio Tu Shihua, (deceduto il 4 gennaio 2017, che prima di morire aveva espresso il desiderio di essere riconciliato con la Sede Apostolica). La riammissione nella piena comunione ecclesiale dei presuli fu decisa dal Papa “al fine di sostenere l’annuncio del Vangelo in Cina”, si sottolineava nel comunicato diffuso il 22 settembre del 2018, poche ore dopo l’annuncio della stipula dell’Accordo provvisorio.

 

“Persone – dice Zen – che non hanno alcuna delle qualità richieste per essere vescovi, che hanno passato anni a sfidare la Santa Sede. E ora, senza alcun pentimento, senza alcun ringraziamento al Santo Padre, sono diventati legittimi. Un anno fa, dalla Santa Sede, è arrivato un documento – senza alcuna firma apposta in calce – in cui si incoraggiano i cattolici cosiddetti clandestini a uscire allo scoperto e ad aderire alla Chiesa patriottica, che come tutti sanno è sottomessa a regime. La Santa Sede ha in pratica incoraggiato i fedeli ad aderire a una chiesa scismatica. E il Papa lo sa che è scismatica, me l’ha detto. Mi invitò a cena, con lui c’era il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato che gestisce il dossier cinese. Non una parola sulla questione, anche se io riferii al Papa tutti i miei dubbi. Mi disse che avrebbe valutato la cosa. Siamo ancora qui”.

  

Il Pontefice del cardinale Zen ha parlato in una lunga intervista concessa alla Reuters, nel 2018: “Il cardinale Zen ha insegnato teologia nei seminari patriottici. Penso sia un po’ spaventato, forse l’età potrebbe avere un po’ di influenza in questo. E’ un un brav’uomo. E’ venuto a parlarmi, io l’ho ricevuto: è un po’ spaventato. Il dialogo è un rischio, ma io preferisco il rischio alla sconfitta sicura che si avrebbe con la rinuncia al dialogo. In riferimento al tempo, qualcuno ha fatto menzione del ‘tempo cinese’. Io penso sia il tempo di Dio. Avanti”.

  

“Perché la Chiesa sta cercando un’intesa con Pechino? Non lo so, non riesco a capirlo.
Non ha in mano niente. Tutto il mondo sta vedendo come è fatto il sistema cinese;
un sistema fondato sulla menzogna. Tutto il mondo è in una situazione disastrosa
a causa delle bugie di Pechino” 

    

A questo punto però si pone la domanda: se non bisogna accettare alcun compromesso con il governo cinese, che di certo non è riconosciuto come campione di trasparenza e promotore di libertà e democrazia, che cosa si può fare? Condannare i cattolici cinesi alla persecuzione? Restare fermi? Quale sarebbe, insomma, il vantaggio di un perdurante muro contro muro? “Chiariamo: nella chiesa ufficiale ci sono ancora tante persone buone, ma sono considerate alla stregua di disturbatori, che negano l’unità”, commenta il porporato, che prosegue: “Ma come si può fare l’unità con chi nega l’ecclesiologia? Possiamo forse consigliare san Giuseppe di andare a dialogare con Erode? Quando si sa che dall’altra parte non c’è alcuna buona volontà di discutere, il dialogo non riesce. Si può tentare, ed è giusto farlo, ma poi bisogna prendere atto che non sempre è possibile”.

 

E dunque, cosa fare? “Bisogna obbedire al Papa, per fortuna nel documento di cui parlavo prima ci si rimette alla coscienza individuale, ed è consentito anche di non entrare nella chiesa patriottica. Penso siano da evitare atti di ribellione, perché è pericoloso. Non bisogna ribellarsi né al Papa né alle autorità, perché altrimenti (in quest’ultimo caso) a essere colpite saranno le chiese e quel poco di libertà che sopravvive. Si continui a celebrare in case private, non bisogna rischiare la vita per avere i sacramenti. Si può rinunciare ai sacramenti per conservare la fede. Tornare a casa, tornare nelle catacombe, tenere e vivere la fede nel cuore, in famiglia. Perché il Signore può sempre fare il miracolo, e noi siamo nelle mani di Dio”.

 

Allora perché la Chiesa sta cercando con insistenza un’intesa con Pechino, se la situazione è questa? “Non riesco a capirlo, non so perché la Chiesa stia capitolando davanti al regime cinese. Non hanno in mano niente. Tutto il mondo sta vedendo e capendo qual è il sistema cinese; un sistema fondato sulla menzogna. Tutto il mondo è in una situazione disastrosa a causa dei silenzi e delle bugie di Pechino. Il Partito comunista si sente minacciato, teme di perdere le ricchezze guadagnate e allora Xi Jinping schiaccia Hong Kong, pensando sia tutto sommato una cosa piccola”.

 

Non è solo Zen a dirlo: all’inizio di aprile hanno fatto parecchio rumore le durissime parole contro il regime cinese pronunciate da Charles Maung Bo, arcivescovo birmano di Yangon, creato cardinale da Papa Francesco nel 2015: “Il Partito ha dimostrato ciò che molti pensavano già prima, esso rappresenta una minaccia per il mondo. Vi sono prove che il Partito comunista cinese sia responsabile, con la negligenza criminale e la repressione che esercita, del rapido diffondersi della pandemia in atto oggi nelle nostre strade”. Xi Jinping e il Partito e non il popolo cinese, aggiungeva il cardinale Bo, “devono a tutti noi scuse e risarcimento per la distruzione provocata. Non dobbiamo temere di richiamare questo regime alle proprie responsabilità”.

 

 

 

Se è vero che l’Accordo tra la Santa Sede e la Cina è segreto, il suo fondamento è noto. Scriveva il cardinale Parolin, nell’introduzione al volume La Chiesa in Cina (Ancora-La Civiltà Cattolica, 2019), che “l’Accordo provvisorio costituisce non tanto un punto di arrivo, quanto piuttosto un punto di partenza”, anche perché “il cammino dell’unità non è ancora interamente compiuto e la piena riconciliazione tra i cattolici cinesi e le rispettive comunità di appartenenza rappresenta oggi un obiettivo prioritario”. Quindi l’aggiunta decisiva: “L’annuncio del Vangelo in Cina non può essere separato da un atteggiamento di rispetto, di stima e di fiducia verso il popolo cinese e le sue legittime autorità”. All’obiezione sulla persecuzione incessante che va avanti da decenni, Parolin notava che “neanche oggi la Chiesa dimentica il sacrificio di tanti suoi figli in Cina, ma proprio guardando al loro esempio si interroga sui modi più opportuni per raggiungere coloro che ancora non conoscono la Buona novella e si attendono una testimonianza più alta da parte di quanti portano il nome cristiano”.

   

In sostanza, osservava il cardinale segretario di stato, “le finalità proprie della Santa Sede rimangono quelle di sempre: la salus animarum e la libertas ecclesiae. Per la chiesa in Cina, ciò significa la possibilità di annunciare con maggiore libertà il Vangelo di Cristo e di farlo in una cornice sociale, culturale e politica di maggiore fiducia”. Una linea di profondo e chiaro realismo politico: aprire un processo, negoziare, concedere qualcosa cercando di ottenere altrettanto. Il problema è soppesare quanto si concede alla controparte, ed è qui che si sta giocando la partita. Soprattutto se dall’altra parte c’è chi, come il presidente della Commissione nazionale del Movimento patriottico delle tre autonomie, sostiene che “il cristianesimo deve affrontare con più impegno la propria sinizzazione secondo i dettami del presidente Xi Jinping, e deve combattere contro le influenze straniere che vogliono sovvertire lo stato attraverso la fede”. Il tutto tradotto nello slogan, “un altro cristiano, un cinese in meno”. A dimostrazione che, come sostiene il professor Fenggang Yang della Purdue University, “le organizzazioni religiose sono percepite come una delle più gravi minacce per il Partito comunista”. A essere minacciati, in particolare, sarebbero la sicurezza nazionale, l’armonia sociale e gli interessi fondamentali del paese. Dopotutto, non c’è spazio per il linguaggio felpato della diplomazia: nel 1996, l’allora direttore dell’Amministrazione statale per gli affari religiosi, Ye Xiaowen, disse che “la religione diventa un’arma nelle mani dei dissidenti per incitare le masse e creare disordini politici”.

 

A ogni modo, qualche segnale che può indurre all’ottimismo c’è. Qualche giorno fa, il 9 giugno, si è tenuta a Fuzhou la cerimonia con la quale mons. Pietro Lin Jiashan è stato riconosciuto vescovo della diocesi anche dal governo. L’ottantaseienne presule, infatti, aveva ottenuto il riconoscimento di Roma nel 1991, ma non delle autorità di Pechino. Il risultato fu la dolorosa divisione tra fedeli seguaci del vescovo di nomina papale e quelli che guardavano al governo, una costante della Chiesa in Cina. Una guerra intestina durata decenni, che ha lasciato tracce profonde nella diocesi (che è una delle più floride di tutto il paese). Ora, Pechino dà il proprio benestare. Nel suo primo discorso da vescovo “unico”, mons. Lin ha detto di voler “proclamare fedelmente il Vangelo e guidare sacerdoti e fedeli nel rispetto della Costituzione dello stato”. Fedeltà al Papa ma anche a Xi Jinping, insomma. Un atto dovuto – e probabilmente inevitabile – per il bene superiore, verrebbe da dire considerando la biografia dell’anziano vescovo, che negli anni della Rivoluzione culturale maoista fu deportato e condannato ai lavori forzati. Non certo, dunque, un entusiasta aedo del verbo comunista.

 

A ogni modo, è meglio non entusiasmarsi troppo. Il professor Francesco Sisci, sinologo e senior researcher presso la China People’s University, ha osservato che “con questo riconoscimento Santa Sede e Cina dicono di voler continuare a dialogare e quindi inviano un segnale urbi et orbi per dire che una strada del dialogo esiste sempre e non siamo arrivati ancora alla Guerra fredda. Detto ciò, il segnale è anche piccolo: perché riconoscere un vescovo che ha novant’anni anziché, per esempio, mons. Giuseppe Wei Jingyi, vescovo cattolico della diocesi di Qiqihar, che è comunque un uomo molto dialogante ma più giovane ed energico? Evidentemente pur nella voglia di dialogo, la Cina resta molto prudente e timorosa”. Il punto, ha spiegato in un intervento ripreso dall’agenzia Sir, è che “la questione Cina-Vaticano si poggia su interessi non perfettamente corrispondenti. Per la Cina la questione non è religiosa. I cattolici sono meno dell’uno per cento della popolazione, contano poco, non danno problemi e quindi sono assolutamente irrilevanti. Ciò che invece per la Cina è rilevante è il ‘potere soffice’ della Chiesa nel mondo. La Cina vorrebbe un aiuto del Vaticano su altri fronti del dialogo politico internazionale. Viceversa, la Chiesa è interessata alle questioni religiose ed è più prudente sulle questioni politiche anche perché tali questioni hanno un impatto grande all’interno della Chiesa stessa. In questo quadro, i progressi sono destinati a essere piccoli ma sebbene siano piccoli sono tanto più importanti vista la situazione generale”.

 

Di sicuro, ogni piccolo progresso è salutato dalla Santa Sede con gioia. Prova ne è il comunicato diffuso lo scorso 14 febbraio in cui si dava conto dello storico incontro avvenuto a Monaco tra il segretario per i Rapporti con gli stati, mons. Paul Richard Gallagher, e Wang Yi, ministro degli Esteri della Repubblica popolare cinese. “Nel corso del colloquio, svoltosi in un clima cordiale, sono stati evocati i contatti fra le due Parti, sviluppatisi positivamente nel tempo. In particolare, si è evidenziata l’importanza dell’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, firmato il 22 settembre 2018, rinnovando altresì la volontà di proseguire il dialogo istituzionale a livello bilaterale per favorire la vita della Chiesa cattolica e il bene del popolo cinese. Apprezzamento è stato espresso per gli sforzi che si stanno compiendo per debellare l’epidemia di coronavirus e solidarietà nei confronti della popolazione colpita. Infine – recitava il comunicato – si è auspicata maggiore cooperazione internazionale al fine di promuovere la convivenza civile e la pace nel mondo e si sono scambiate considerazioni sul dialogo interculturale e i diritti umani”.

 

Ma anche sui numeri reali della presenza cattolica (e cristiana più in generale) nel paese la discussione è aperta. Fare stime circa il numero di cristiani oggi in Cina è complicato. “La pratica religiosa cristiana è riemersa dopo la fine della Rivoluzione culturale e ha guadagnato terreno nella società cinese”, si legge in un rapporto del Council on foreign relations: “Il numero di cristiani nei primi anni Ottanta era stimato in circa sei milioni. Oggi le stime variano ampiamente: il governo conta ventinove milioni di aderenti cristiani, mentre le organizzazioni esterne hanno posto le loro stime più in alto. Nel 2010, il Pew Research Center ha calcolato sessantotto milioni di cristiani in Cina, pari a circa il 5 per cento della popolazione. Altre stime indipendenti suggeriscono una forbice che va dai 100 ai 130 milioni”. Ulteriori indicatori prevedono che se il tasso di crescita sarà confermato, la Cina potrebbe contare fino a 160 milioni di cristiani entro il 2025 e 247 milioni entro il 2030. “Gran parte della discrepanza tra i numeri ufficiali del governo e le stime degli esperti può essere attribuita al non riconoscimento di Pechino di cristiani impegnati in attività religiose al di fuori delle organizzazioni religiose controllate dallo stato”, prosegue l’analisi del Council on foreign relations.

 

Sulla Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti pubblicata previo imprimatur vaticano e da poco anche in versione cinese, fece discutere tempo fa (quaderno 4025, marzo 2018) un articolo di Benoît Vermander, professore di Scienze religiose all’Università Fudan di Shanghai, dal titolo estremamente chiaro benché posto in forma interrogativa: “Rendere più cinese il cristianesimo?” Scriveva Vermander: “Le Chiese cristiane non dovrebbero trascurare l’appello a ‘sinizzarsi’ solamente perché proviene dal governo. Il contenuto del compito che il governo chiede di attuare alle organizzazioni religiose e ai credenti in realtà è ben lontano dall’essere chiaramente definito, e ciò apre spazi per il confronto e l’immaginazione. Rimanere sordi all’invito che è stato rivolto ai cristiani cinesi – per quanto ambiguo possa essere – li metterebbe in una posizione sbagliata, non solo nei confronti del governo, ma anche nei confronti dei cinesi, per i quali il cristianesimo è ancora una religione ‘straniera’”. Quindi, “rendere più cinesi le religioni non vuol dire semplicemente sviluppare un rituale locale e una prospettiva dottrinale, ma in primo luogo aderire alla definizione di cultura cinese proposta dalla stessa relazione del presidente Xi al XIX Congresso”. Per farlo, tre sono le direttrici da seguire: lavorare sulla spiritualità e la teologia spirituale; approfondire il legame tra gli argomenti biblici, l’arte e la letteratura; agire nel campo sociale per ridurre disuguaglianze e squilibri nella Cina attuale.

 

Sempre Vermander, in un articolo pubblicato lo scorso marzo sulla medesima rivista, dava ragione alle analisi del cardinale Zen relativamente all’obiettivo perseguito dallo Stato-Partito a partire dagli anni 2015-’17, e cioè “rendere tutte le comunità di credenti delle religioni ‘nazionali’ subordinate a una ‘religione civile’, di cui il partito cerca – non senza grandi difficoltà – di elaborare il contenuto e le espressioni rituali”. E tale obiettivo si concretizza – scrive Vermander – “in restrizioni che si stanno progressivamente ampliando, sebbene la loro natura e la loro applicazione continuino a differire in qualche modo da un luogo all’altro”. Però, notava, “per quanto restrittivo sia il quadro legale in cui si sviluppano le religioni, esso non richiede certo l’apostasia, e l’articolo 36 della Costituzione cinese continua a garantire formalmente la libertà religiosa”. Non solo, ma – a giudizio del gesuita – “l’epoca attuale non può essere identificata con quella della Rivoluzione culturale”. In secondo luogo, “il desiderio di rendere le religioni docili collaboratrici della ‘religione civile’ si estende e a tutte le religioni e anche a tutte le espressioni della società civile. Rispetto alla pressione esercitata sugli organi dirigenti del protestantesimo cinese, si può persino pensare che la Chiesa cattolica venga – per il momento – relativamente risparmiata, probabilmente in seguito all’Accordo del settembre 2018”.

 

E poi, secondo Vermander “la stragrande maggioranza dei cattolici cinesi di oggi è nata sotto l’attuale governo e ne ha ‘addomesticato’ la retorica: sa ascoltarla con una distanza critica, come molti dei loro concittadini. Che si siano convertiti o che abbiano perseverato nella loro fede, i cattolici cinesi distinguono le cose, si ‘adattano’ al sistema”. Infine, “l’amore per il paese è tanto forte fra i cattolici cinesi quanto tra i loro concittadini, e questo sentimento richiede, da parte loro, di adottare un atteggiamento responsabile e prudente piuttosto che di ricorrere precipitosamente all’intransigenza: un atteggiamento, quest’ultimo, che li porterebbe presto all’isolamento, a essere emarginati dalla nazione”.

  

Sinizzazione? “E’ un inutile arzigogolare sul problema”, commenta il cardinale Joseph Zen: “Sono bugie, e chi parla di sinizzazione sa benissimo che non si tratta di inculturazione. Si cita sempre Matteo Ricci, che è stato un grande e viene giustamente esaltato. Ma qui è fuori posto. Sinizzazione significa esclusivamente obbedire al Partito comunista. Ci rendiamo conto che dopo la firma dell’Accordo del 2018 l’Associazione patriottica e la cosiddetta Conferenza episcopale cinese hanno subito dichiarato che si sarebbe andati avanti come prima con l’obbedienza al Partito? Più chiaro di così… Non rimane neppure lo spazio per fingere di non capire come stanno le cose. Mi chiedo sempre come sia possibile che persone di qualità che conoscono davvero la situazione in Cina possano sostenere tali posizioni. Lo ribadisco: quel documento relativo all’ingresso nella chiesa ‘ufficiale’, se applicato alla lettera, giustificherebbe anche l’apostasia”.

 

La battaglia tra Zen – “Sono consapevole di essere in minoranza, lo so bene”, ribadisce – e le alte gerarchie vaticane è pubblica: niente è nascosto. A dimostrarlo c’è l’inusuale lettera inviata ai cardinali lo scorso inverno dal decano Giovanni Battista Re, primo atto ufficiale nel nuovo ufficio. L’antefatto è rappresentato da una missiva che Zen spedì il 27 settembre del 2019 a tutti i porporati, illustrando ancora una volta i sui dubbi e le sue critiche veementi all’intesa con Pechino. Scrive il cardinale Re: “Il card. Zen varie volte ha affermato che sarebbe stato meglio nessun Accordo piuttosto che un ‘brutto Accordo’. I tre ultimi Pontefici non hanno condiviso tale posizione e hanno sostenuto e accompagnato la stesura dell’Accordo che, al momento attuale, è parso l’unico possibile. In particolare, sorprende l’affermazione del porporato che ‘l’accordo firmato è lo stesso che Papa Benedetto aveva, a suo tempo, rifiutato di firmare’. Tale asserzione non corrisponde a verità. Dopo aver preso conoscenza di persona dei documenti esistenti presso l’Archivio corrente della Segreteria di stato, sono in grado di assicurare a vostra eminenza che Papa Benedetto XVI aveva approvato il progetto di Accordo sulla nomina dei vescovi in Cina, che soltanto nel 2018 è stato possibile firmare. L’Accordo prevede l’intervento dell’autorità del Papa nel processo di nomina dei vescovi in Cina. Anche a partire da questo dato certo, l’espressione ‘Chiesa indipendente” non può più essere interpretata in maniera assoluta, come “separazione’ dal Papa, cosi come avveniva in passato”.

 

Ancora, osserva il decano, “nella sua lettera [Zen, ndr] parla anche della ‘uccisione della Chiesa in Cina da parte di chi dovrebbe proteggerla e difenderla dai nemici’ e, in particolare, in un’intervista, si rivolge ai cattolici con queste parole: “Attendete tempi migliori, tornate alle catacombe, il comunismo non è eterno’ (New York Times, 24 ottobre 2018). Si tratta, purtroppo, di affermazioni molto pesanti che contestano la stessa guida pastorale del Santo Padre anche nei confronti dei cattolici ‘clandestini’, nonostante che il Papa non abbia mancato di ascoltare ripetute volte l’Em.mo cardinale e di leggere le sue numerose missive”.

 

Alla lettera di Re ha risposto subito Zen. Tra le varie osservazioni, il vescovo emerito di Hong Kong scriveva che “per chiarire la visione di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI riguardo al comunismo mi basta ora rimandarLa a pag. 161-162 del libro Ultime conversazioni (Papa Benedetto mi fece avere una copia con la dedica ‘in comunione di preghiera e di pensiero’). La domanda del giornalista Peter Seewald: ‘Ha condiviso e sostenuto attivamente la Ostpolitik del Papa (Giovanni Paolo II)?’ Benedetto rispose: ‘Ne parlavamo. Era chiaro che la politica di Casaroli, per quanto attuata con le migliori intenzioni, era fallita. La nuova linea perseguita da Giovanni Paolo II era frutto della sua esperienza personale, del contatto con quei poteri. Naturalmente allora non si poteva sperare che quel regime crollasse presto, ma era evidente che, invece di essere concilianti e accettare compromessi, bisognava opporsi con forza. Questa era la visione di fondo di Giovanni Paolo II, che io condividevo’”. Inoltre, “per provare che l’accordo firmato era già stato approvato da Benedetto XVI basta mostrarmi il testo firmato, che fino a oggi non mi è stato concesso di vedere, e l’evidenza dell’archivio, che Ella ha potuto verificare. Rimarrebbe solo ancora da spiegare perché allora non è stato firmato”.

 

Uno dei migliori articoli di analisi dell’Accordo sino-vaticano è stato pubblicato nel dicembre di due anni fa su America magazine da padre Paul P. Mariani S.I., esperto di Cina alla Santa Clara University, in California. “L’Accordo provvisorio – sono parole di Mariani – non è privo di rischi. Sarebbe ingenuo pensare che il governo di Pechino desideri risultati positivi per la chiesa. Il governo cinese ha visto la chiesa sotterranea come una spina nel fianco per decenni e per decenni ha cercato di calpestarla. Pechino, probabilmente, considera l’intesa come un modo per controllare ulteriormente la comunità sotterranea. Se il Vaticano è disposto a essere cooptato in questo progetto, tanto meglio”. Dunque si arriva a dire che “il Papa sta vendendo la chiesa sotterranea? Questa è una domanda che si pone in continuazione, anche al Papa stesso. I fedeli sotterranei saranno feriti e in passato hanno sofferto molto per mano del governo cinese. Ora soffriranno per mano del Vaticano. Questi sono alcuni dei sentimenti che ho recepito durante il mio recente viaggio in Cina. Alcuni cattolici hanno paura di essere abbandonati ai lupi”. Quanto all’oggettiva situazione sul campo, padre Mariani osservava che “fino a poco prima dell’accordo provvisorio c’erano circa cento vescovi in Cina, trenta dei quali non riconosciuti dal governo. Alcuni si trovano agli arresti domiciliari, altri sono scomparsi, altri ancora lavorano con una certa libertà. I restanti settanta sono stati riconosciuti sia dalla Santa Sede sia dal governo cinese”.

 

Il problema, appunto, è che restavano sette vescovi illegittimi: “Inutile dire che questo è uno stato altamente irregolare per la chiesa. Nessun’altra conferenza episcopale al mondo ha vescovi legittimi e illegittimi nello stesso corpo. Il grano e la pula sono stati mescolati insieme”. A ogni modo, concludeva il gesuita su America magazine, l’intesa “non è priva di domande irrisolte. Intanto bisogna capire correttamente se la Chiesa sia dei diplomatici e dei funzionari o dei martiri e dei profeti. Insomma, è la chiesa delle comodità o delle catacombe?”. E qui Mariani citava addirittura mons. Oscar Romero, fatto santo da Papa Francesco. “Una volta san Romero disse che una chiesa che non subisce persecuzioni ma gode dei privilegi e del sostegno delle cose della terra non è la vera chiesa di Gesù Cristo”.

 

Ma qual è la situazione della Chiesa in Cina, oggi? Al di là delle semplificazioni giornalistiche o dei resoconti delle tifoserie opposte è arduo rispondere con dati oggettivi. “Non c’è alcuna primavera”, dice senza tentennamenti il cardinale Joseph Zen: “Apparentemente, uno che va a visitare le chiese può avere una buona impressione, vedendo gente che prega e canta. Se ci restasse un po’ di più, però, s’accorgerebbe che oltre ai pastori buoni ci sono anche tanti lupi. Quando il mondo lo capirà, sarà troppo tardi”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.