foto LaPresse

Consulta eutanasica

Agevolare il suicidio diventa un atto medico. La sconfitta della solidarietà umana passa per quella del Parlamento

Come previsto, i giudici costituzionali hanno aperto al suicidio assistito in Italia, all’interno del Servizio sanitario nazionale, nei termini anticipati dall’ordinanza 207 della Consulta dello scorso anno, e cioè in coerente continuità con la legge 219 sul cosiddetto testamento biologico, di cui amplia le parti eutanasiche. D’altra parte c’era chi, a ragione, fin dall’inizio chiamò quella legge “la via italiana all’eutanasia”, perché la 219 prevede che alimentazione e idratazione artificiale si possano rifiutare o interrompere come fossero terapie, e in quel modo essere certi di poter morire. La Consulta non ha fatto altro che tirare le conseguenze: a chi già può morire rifiutando sostegni vitali, perché non consentire di farlo più rapidamente?

 

Non sarà punibile, quindi, procurare la morte a chi si troverà nelle condizioni di Dj Fabo, e cioè un “paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. In questi casi, agevolare il suicidio sarà considerato un atto medico, stravolgendo anche in Italia il paradigma fondamentale su cui si basa la professione medica, nata per combattere la morte, e non per procurarla. Bisognerà aspettare il testo della sentenza per capire bene i contorni della decisione della Corte, ma il comunicato è sufficientemente chiaro per capire che l’ordinanza è stata rispettata.

 

Le responsabilità della politica sono enormi: rinunciando a legiferare, si è lasciata volutamente l’iniziativa ai giudici. La sconfitta della solidarietà umana passa per quella del Parlamento.