Marco Cappato (Foto LaPresse)

Perché sarebbe utile un nuovo rinvio della Consulta sul suicidio assistito

Alfredo Mantovano

La Corte costituzionale torna a occuparsi del cosiddetto “caso Cappato”. Il Parlamento, prima della crisi di governo, ha lavorato a lungo per presentare una legge. Sarebbe logico concedergli più tempo

Stamane la Corte costituzionale torna a occuparsi del cosiddetto “caso Cappato” dopo che, all’esito dell’udienza precedente, il 23 ottobre 2018, ne ha deciso il rinvio a oggi, sollecitando il Parlamento a provvedere nelle more. Nella Relazione sull’attività svolta nel 2018, il presidente della Corte Lattanzi ha qualificato le indicazioni contenute nell’ordinanza di rinvio, la n. 207/2018, come “illegittimità prospettata” dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui sanziona l’agevolazione al suicidio: se si resta a quanto deciso nella camera di consiglio di dieci mesi fa, la sentenza è già scritta e ha i contenuti di quell’ordinanza. Dopo un percorso motivazionale non del tutto coerente – prima dice che l’art. 580 c.p. tutela i deboli, poi ne afferma l’illegittimità –, essa pare individuare un “diritto” alla morte, cui corrisponderebbe il “dovere” del medico, salva l’obiezione di coscienza, di garantirne la realizzazione.

 

Questo è uno dei temi dell’udienza di oggi. Non l’unico. La decisione della Corte ha riconosciuto che la materia è complessa e che il proprio intervento rischia di lasciare dei vuoti, e per questo ha preferito demandarne – se pure a tempo – la trattazione a una legge, che avrebbe tratti meno “chirurgici” e più organici. Il Parlamento non è rimasto senza far nulla: all’inizio del 2019 la Camera ha avviato l’esame di differenti proposte di disciplina della materia. Le commissioni Giustizia e Affari sociali hanno dapprima svolto audizioni, quindi sono passate alla discussione dei testi proposti, poi hanno focalizzato l’attenzione su un’ipotesi attenuata di reato – che rispondesse in parte alle indicazioni della Corte –, e su di essa hanno nuovamente aperto ad audizioni. Non hanno poi raggiunto un accordo sul testo da inviare in Aula. Uno dei rami del Parlamento ha comunque preso in seria considerazione l’invito a intervenire con un provvedimento normativo, come attestano la consistenza e l’intensità dei lavori svolti: ciò peraltro ha precluso per regolamento che analoghe iniziative legislative fossero esaminate in Senato.

 

La crisi di governo e i tempi di formazione del nuovo esecutivo e l’iter della fiducia hanno impedito di riprendere a trattare la materia. Se oggi la Consulta intendesse come non procrastinabile il termine fissato perché il Parlamento provveda, la sentenza interverrebbe senza che le Camere abbiano avuto modo di esprimersi per l’intero arco temporale individuato dalla Corte, essendo stati loro sottratti quasi due mesi. Peraltro, l’interlocuzione cercata dalla Consulta è col Parlamento nel suo insieme, ma uno dei rami di esso – il Senato – non è stato posto nella condizione di esprimersi.

 

Una sentenza pronunciata all’esito dell’udienza di oggi avrebbe comunque bisogno di un ulteriore intervento legislativo. Per fare qualche esempio, fra i tanti, sarebbe ben arduo definire con la pronuncia della Corte invece che con una legge la prioritaria attivazione dei trattamenti palliativi e il regime dell’obiezione di coscienza del medico: entrambi costituiscono punti salienti dell’ordinanza n. 207. Se una legge è necessaria è però indispensabile ulteriore tempo, per recuperare quello forzatamente non utilizzato a seguito degli impegni parlamentari imposti dalla crisi dell’esecutivo, e per far esprimere Palazzo Madama, rimasto finora fuori dalla dialettica richiesta dalla Corte: immagino che andasse in questa direzione la garbata – e da troppi infondatamente criticata – telefonata della presidente del Senato al presidente Lattanzi.

 

Dunque, far decidere al Parlamento invece che al Giudice, se pure costituzionale, questioni cruciali, controverse e complesse, è l’altro tema dell’udienza di oggi. Se la Consulta ha stabilito che serve l’intervento delle Camere avrebbe senso oggi permettere con un rinvio di proseguire un lavoro comunque avviato. E non ridurre il Parlamento a un organismo che si limita a recepire acriticamente direttive europee e sentenze dei giudici nazionali.