Vittorio Sgarbi - ansa

bandiera bianca

Per riformare il lavoro statale servirebbe una "legge Sgarbi"

Antonio Gurrado

Imporre ai dipendenti pubblici l'obbligo di possedere anche un'attività privata (magari in onore dell'ormai ex sottosegretario alla Cultura) promuoverebbe l'efficienza dell'impiego statale, garantendo più flessibilità e più libertà individuali

Modesta proposta: per chi lavora per lo stato, introduciamo l’obbligo di avere anche un’attività privata. Avete capito bene, l’obbligo e non la proibizione; un po’ come nel Seicento gli ebrei sefarditi costringevano tutti a imparare un’attività manuale, così che non si perdessero nei fumi dei mestieri astratti. Imporre l’obbligo di attività privata parallela sarebbe un presidio di eccellenza: indurrebbe infatti i dipendenti pubblici a maggiore duttilità e aggiornamento più costante.

Sarebbe un presidio di merito: mentre nella notte dell’impiego statale spesso tutte le vacche sono bigie, l’attività privata spietatamente distingue fra chi è bravo e no, informazione che può tornare utile allo stato, affinché ne tragga le debite conseguenze. Sarebbe un presidio di efficienza: costretti dall’interesse personale, i dipendenti pubblici eviterebbero di perdersi in chiacchiere. Sarebbe un presidio di realtà: immergendosi nel contesto darwiniano del privato, i dipendenti pubblici diventerebbero molto più disponibili ed empatici nei confronti degli utenti. Sarebbe infine un presidio di libertà: poiché dimostrerebbe che, affidando un incarico a qualcuno, lo stato non annulla l’individuo ma lo esorta a farsi valere per le sue specifiche capacità e inclinazioni. Da tempo penso che una normativa del genere non possa essere che benvenuta; da ieri sono convinto che bisognerebbe chiamarla “legge Sgarbi”.