Fidel Castro (foto LaPresse)

Le regole per trattare a Cuba con i fratelli Castro (è difficile)

Angela Nocioni

Fidel resiste, eterno come l’aria e l’acqua. Con il potere (formale) affidato a suo fratello, osserva il mondo sprofondato nella sua poltrona vista Caribe. Telefona, riceve, briga, riflette. E’ ancora lui il comandante in capo di qualsiasi trattativa possibile all’Avana.

Fidel, il nemico intimo. Devi amarlo un nemico così, per poter sperare di sopravvivergli. E’ dal Capodanno del 1959 che non fa una piega, eterno, immarcescibile, capace di uscire da qualsiasi tempesta dritto come un fuso, miracolosamente illeso. Roba che neanche la regina Elisabetta.

 

Cuba va a rotoli, si allevano maiali in salotto per avere la cena sicura e ci si fidanza pro tempore con miseri turisti all inclusive di Pinerolo nel tentativo di inventarsi l’illusione breve di un’altra vita, quasi sempre più triste della prima.

 

Fidel resiste, eterno come l’aria e l’acqua. Con il potere (formale) affidato a suo fratello, osserva il mondo sprofondato nella sua poltrona vista Caribe. Telefona, riceve, briga, riflette. Un rapporto da romanzo psicologico con il povero Raúl, brutto, piccolo, silenzioso, l’eterno secondo. Bisogna non conoscere Cuba per pensare che, con Fidel in vita e ragionante, ci sia una sola decisione di strategia politica internazionale presa all’Avana senza il suo assenso. E’ lui il comandante in capo di qualsiasi trattativa possibile. Fa così da sessant’anni.

 

Ma come si tratta con Fidel? Prima regola: i problemi cubani si trattano tra cubani. Quindi far muovere formalmente l’arcivescovado dell’Avana, se a dare i passi concreti è l’America. Non Papa Francesco? No, è argentino. Che si muova sulla scena il cardinale Jaime Lucas Ortega y Alamino, se a tendere la mano è il presidente degli Stati Uniti d’accordo con il Vaticano.

 

Seconda regola: mai irrigidirsi su questioni di principio, la controparte cubana deve sembrare regista della trattativa. Quindi accettare impuntature, vanità e capricci pur di non far saltare il tavolo. Quindi sorridere “como un mulato tonto” (frase sentita dall’Avana l’altro ieri), ammettere di aver sbagliato politica d’avvicinamento per sessant’anni, dichiarare disponibilità a quasi tutto senza avere in cambio niente. Assolutamente niente.

 

Obama è stato bravissimo a fare la parte dell’americano ricco che sorride senza valutare la trappola che ha di fronte. Gli tocca passare per scemo, se vuole trattare con il comandante in capo. E’ necessario per sedersi al tavolo.

 

Ma come ottenere qualcosa senza prima concedere tutto e restare irrimediabilmente fregati? Finora c’è riuscita solo la Spagna. Mediatori e cubanologi, d’oltreoceano e d’oltre Tevere, sanno che la scuola d’arte diplomatica per spuntarla con Fidel ha un solo maestro: Miguel Angel Moratinos, ex ministro degli Esteri (nemmeno considerato tanto vispo) dell’ex governo Zapatero. Per fatti suoi Moratinos conosce bene l’isola. E’ stato l’unico ad aver ottenuto qualcosa da Fidel Castro senza essere stato prima da lui spremuto e poi buttato in soffitta insieme alla lunga schiera degli emissari, messaggeri, arcangeli diplomatici, tutti invariabilmente finiti naufragati sul grande scoglio dell’Avana. Fottuti e contenti. Miguel Angel Moratinos è stato l’artista della diplomazia con Cuba. Discreto e concreto, molto abile nel rispettare i tic dell’isolazionismo cubano. Per questo motivo – sei, sette anni fa – a chi gli chiedeva perché lui, che andava a Cuba a trattare di diritti umani, non si avvicinasse mai ai dissidenti liberi, ogni volta rispondeva: “Non sono venuto a riunirmi con un settore della società cubana, ma a rafforzare le relazioni bilaterali”.

 

[**Video_box_2**]Allora la Spagna voleva mollare la linea dura con Cuba scelta dall’ex premier Aznar e tentare di ricucire i rapporti economici con i Castro. Le relazioni con l’Avana erano costrette alla semi-clandestinità da una posizione comune decisa dall’Unione europea dopo la Primavera nera del 2003. Era successo che in una stretta cupa del regime, 73 persone erano state incarcerate per reati d’opinione. Tre cubani (neri, perché nella società degli Uomini Nuovi dell’egualitarismo cubano, i neri valgono meno dei bianchi, buttare un’occhiata all’organigramma del governo rivoluzionario per credere) tre cubani neri, dicevamo, colpevoli di aver sequestrato il traghetto che fa la spola tra l’Avana e un altro porto cubano lì vicino nel tentativo maldestro di arrivare così a Miami, furono condannati a morte e fucilati. La Ue aveva risposto con la frusta chiudendo tutti i rubinetti di denaro liquido. Castro, che di fronte alla frusta fa una sola cosa, irride, ha scrollato le spalle e tirato dritto, facendo finta che della cooperazione economica in euro sonanti poteva fare anche a meno. Moratinos voleva rimediare allo strappo. Sembrava matto. Ci riuscì.

 

A mediare con i Castro fu allora formalmente il cardinale dell’Avana Jaime Ortega, ma a tessere la tela, a mantenere in piedi giorno dopo giorno il difficilissimo equilibrio delle relazioni con il regime, fu Moratinos. Consapevole che i Castro, provocati, anche quando sono alla fame, si chiudono a riccio, si impermeabilizzano, sono capaci di portarsi nella tomba 11 milioni di cubani pur di non abbassare la testa, si presentò all’Avana col cappello in mano. Umilmente chiese udienza, pazientemente attese, fece intendere che, fosse stato per lui, da decenni l’Europa avrebbe abbandonato la politica del bastone e la carota con Cuba, ma che purtroppo, aveva impiegato anni per riuscire a ritagliarsi quel piccolo minuscolo strapuntino di potere personale che gli permetteva ora, finalmente, di poter scegliere, almeno per conto della Spagna, il tono da mantenere con la Rivoluzione.
Riuscì, in pochi mesi, a far ammettere a Raúl Castro l’esistenza di detenuti politici sull’isola, segnale diplomatico esplicito. L’Avana parla sempre dei suoi prigionieri politici o come detenuti comuni o come terroristi. Poiché una legge formale che vieti la libertà d’espressione non esiste, non esistono in teoria nemmeno detenuti politici sull’isola. Che invece esistono e sono stati uno dei nodi principali di ogni trattativa diplomatica negli ultimi anni tra l’Unione europea e Cuba. Moratinos lavorò da esorcista. Con quell’operazione i detenuti della Primavera nera furono liberati. Moratinos dimostrò al mondo che la politica dei piccoli passi con Cuba è l’unica che funziona. Qualcuno, tra Washington e il Vaticano, deve aver tenuto a mente la lezione.

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