Barack Obama lascia il podio da cui ha appena tenuto il discorso storico in cui annuncia il "disgelo" con Cuba (foto AP)

L'America non imperiale

Paola Peduzzi

L’engagement con tutti, soprattutto con i nemici, tocca il massimo della sua popolarità con Cuba. Sui simboli il presidente è invincibile, ma non c’è un reset che abbia funzionato, e nemmeno i pivot si sentono bene.

Milano. Il “reset” dell’Amministrazione Obama con il regime di Cuba è infine arrivato, negoziato da un uomo dell’inner circle della Casa Bianca, quel Ben Rhodes nato come speechwriter e ora diventato il tuttofare della politica estera degli Stati Uniti. Dopo essere sopravvissuti a dieci presidenti americani, i Castro hanno ottenuto da Obama la riapertura delle relazioni diplomatiche, ribaltando una strategia di isolamento che a Cuba non ha debilitato il regime, ottenendo una “détente” a prezzo nemmeno troppo elevato – uno scambio di “prigionieri” – che arriva in un momento perfetto per il regime cubano a caccia di sostenibilità economica e politica e per il presidente americano che rincorre una legacy degna delle straordinarie aspettative sul suo mandato. Crollano muri, crollano chiusure vetuste, crollano pregiudizi, scrivono i media internazionali entusiasti di fronte al “momento storico”, peccato che è crollato tutto tranne il regime castrista di Cuba, lì saldo, imbalsamato, determinato a dettare ancora regole. E’ un primo passo, si sa che appena soffia il vento della libertà – e dei soldi americani – le barriere vanno giù, il capitalismo tanto vituperato dalla retorica moderna liberal-pikettiana sa essere contagioso, ma il tratto peculiare della visione obamiana resta intatto: non si cambiano i regimi, si fanno patti con loro.

 

Ce l’aveva detto: “Engagement con i nemici” è la formula con cui Obama ha provato a tirare una riga sulla politica estera bushiana, nelle sue intenzioni rappresentava lo spartiacque tra un decennio di guerre e uno di pace. Di pace se n’è vista poca, di mani tese invece ce ne sono state tante, negoziare senza precondizioni è l’essenza del “reset”. Il discorso che Obama ha tenuto due giorni fa, annunciando la distensione delle relazioni con Cuba, aveva molte similarità con quello che tenne nel 2009, in occasione del capodanno persiano, Nowruz: comunichiamo, il popolo iraniano (così come oggi il popolo cubano) viene prima di tutto, questo è un “new beginning” fatto di collaborazione e commercio in vista di un futuro in cui le divisioni saranno superate. Come ha scritto il Washington Post, è “la filosofia di politica estera di Obama in un microcosmo”, o come dice Samuel R. Berger, che lavorò alla Casa Bianca di Bill Clinton, “è la visione istintiva di Obama secondo cui l’engagement anche con paesi problematici serve all’obiettivo di riportarli nella comunità internazionale più che l’isolamento”. Di lì a poco, in Iran nel 2009, ci sarebbe stata una strage di piazza, Obama avrebbe tentennato a lungo prima di schierarsi con il popolo, la mano tesa sarebbe stata rifiutata. Il presidente dell’engagement ha fatto poi un altro passo storico: ha parlato al telefono con il presidente iraniano, Hassan Rohani, e ancora una volta abbiamo sentito parlare di muri caduti, di deviazioni straordinarie dal corso della storia. Ma il regime iraniano è là, soffre per le sanzioni, ha imparato a rivestire la sua immagine cupa di sorrisi cinguettanti, ma quando c’è da accordarsi su qualcosa di strategico – come il programma nucleare, come la caduta di Bashar el Assad in Siria – non si trova il modo.

 

[**Video_box_2**]Il “reset” come termine (sciagurato) è stato inaugurato con la Russia, sempre nel 2009. Basta ascoltare qualche scambio di Vladimir Putin con i giornalisti ieri nella conferenza stampa di fine anno per capire che l’engagement con il regime russo non è andato come ci si aspettava, e le prospettive non sono rosee. Con la Corea del nord che sparò un missile, sempre nel 2009, mentre Obama teneva uno dei suoi discorsi memorabili sulla non proliferazione nucleare, le cose non paiono essere andate tanto meglio, e anzi oggi un colosso come la Sony è in ginocchio per i cyberattacchi nordcoreani. Sulle relazioni con il regime di Pechino sono stati scritti tomi, ma l’accordo più grande che finora è stato siglato è quello (ancora da mettere in pratica) sul clima.

 

Sui simboli Obama è invincibile, la sua popolarità è destinata a risalire, perché “fare la storia” è quel che ci si aspetta come happy end della favola obamiana. Sui risultati concreti dell’engagement o della sua variazione di “pivot”, come formula catartica di gestione del mondo, rubiamo le parole al Wall Street Journal: “Forse il ‘reset’ cubano riuscirà meglio degli sforzi fatti con Russia, Siria, Corea del nord e Iran”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi