Il presidente americano Barack Obama (foto AP)

Pennsylvania Avenue

Chi c'è dietro l'abbraccio tra Washington e Cuba. Alleanze e think tank

Domenico Lombardi

Contro le aspettative, nello scorcio dell’anno che si è appena chiuso dopo la sconfitta alle elezioni congressuali di novembre, Barack Obama ha segnato una serie di vittorie tattiche con l’effetto di rivitalizzare, almeno temporaneamente, una presidenza che sembrava compromessa.

Contro le aspettative, nello scorcio dell’anno che si è appena chiuso dopo la sconfitta alle elezioni congressuali di novembre, Barack Obama e il suo team a Pennsylvania Avenue hanno segnato una serie di vittorie tattiche con l’effetto di rivitalizzare, almeno temporaneamente, una presidenza che sembrava irreversibilmente compromessa. Lo scorso 11 novembre, la Casa Bianca annunciava un’intesa bilaterale con la Cina per limitare l’emissione di carbonio nell’atmosfera; il 9 dicembre, discretamente pilotava la pubblicazione del rapporto della commissione senatoriale sull’intelligence in relazione agli abusi compiuti dalla Cia tra il 2001 e il 2006; infine, il 17 dicembre, lo storico annuncio del ripristino del disgelo con Cuba.

 

In retrospettiva, cerchiamo di capire fatti, attori, e alleanze che stanno ispirando il recente iperattivismo dello Studio ovale. Ma prima i fatti, cominciando dall’evento più recente.

 

Lo scorso 17 dicembre il presidente Obama e il presidente cubano Raúl Castro annunciavano il ripristino delle relazioni diplomatiche dopo più di mezzo secolo. Come riconosciuto apertamente dai due leader, la Santa Sede contribuiva allo storico avvenimento con tutto il peso della mediazione personale dello stesso Papa Francesco nei mesi immediatamente precedenti.
Altri due attori, tuttavia, contribuivano al medesimo risultato, uno rimasto nella penombra e l’altro nell’ombra assoluta. Il primo è Stephen Harper, il primo ministro canadese e leader del Partito conservatore, la cui diplomazia si era adoperata per ospitare almeno 7 incontri, in via estremamente riservata, tra le delegazioni dei due paesi tra il giugno del 2013 e l’ottobre dello scorso anno a Ottawa e Toronto.

 

Il Canada è uno dei pochissimi paesi dell’emisfero americano ad aver mantenuto relazioni diplomatiche con il regime cubano in seguito alla rivoluzione castrista nel 1959. Negli anni Settanta, l’allora primo ministro liberale Pierre Trudeau si era recato in visita a l’Avana.

 

Del resto, non è la prima volta che il Canada fa da cuscinetto diplomatico degli Stati Uniti. Lo stesso Trudeau si era adoperato con la Cina comunista ristabilendo le relazioni diplomatiche con Pechino, preparando il terreno per il disgelo che l’allora presidente Nixon avviò con quel regime.

 

Se Harper mette a segno un discreto successo diplomatico, lo stesso non vale per l’altro attore che ha lavorato da mediatore assai discreto presso il gruppo dirigente del Partito democratico e le élite della capitale americana, entrambi inizialmente scettici, se non a disagio, in relazione a una potenziale apertura dell’Amministrazione su Cuba.

 

Strobe Talbott, presidente della Brookings Institution, ex vicesegretario di stato nell’Amministrazione di Bill Clinton, e presidente inaugurale del Foreign Affairs Policy Board insediato nel 2011 dall’allora segretario di stato Hillary Clinton, avviava prontamente una serie di visite informali a l’Avana, predisponeva gruppi di studio e workshop bilaterali, con il duplice scopo di sondare informalmente con Cuba i parametri di una iniziativa diplomatica bilaterale di discontinuità e rassicurare le élite di Washington rispetto a tale iniziativa.

 

[**Video_box_2**]Se queste ultime, in privato, mostravano delle incertezze al riguardo, la Casa Bianca traeva impeto da sondaggi che davano la maggioranza degli americani – e la stragrande maggioranza dei residenti della Florida, dove sono concentrati gli americani di origine cubana – in favore della normalizzazione delle relazioni con Cuba.

 

Del resto, alcuni timidi segnali di normalizzazione erano stati inviati già nei primi anni della presidenza Obama, fruttando al Partito democratico ben dieci punti percentuali in più nel medesimo bacino elettorale in alcune elezioni locali in Florida nel 2012, indebolendo dunque la tradizionale roccaforte di voti repubblicani che gli americani di origine cubana rappresentano.
Ora, la Cina. Con l’intesa bilaterale con Pechino sulla riduzione delle emissioni di carbonio, Obama rafforza la sua eredità in materia ambientale, imprimendo un’accelerazione alla vigilia dell’importante conferenza delle Nazioni Unite prevista a Parigi quest’anno e dimostra la sua capacità politica di ingaggiare costruttivamente la superpotenza cinese. Di nuovo, sorprendono i facilitatori di questo accordo, riconducibili ancora una volta al di fuori dell’Amministrazione. Si tratta del vertice di un altro prestigioso think tank, la New America Foundation, la cui presidentessa, Anne-Marie Slaughter, proviene dai ranghi del ministero degli Esteri americano ai tempi di Hillary Clinton, segretario di stato.

 

Infine, il rapporto della commissione senatoriale sull’intelligence presieduta dalla senatrice Dianne Feinstein, fedele sostenitrice di Hillary Clinton anche se ha servito con lealtà Obama nella sua presidenza.

 

Tutte le iniziative sono state concertate con (e approvate da) Hillary Clinton, il probabile candidato democratico alle prossime elezioni presidenziali con il duplice obiettivo di assicurare una dignitosa eredità al presidente uscente e posizionare in modo vincente una futura Amministrazione democratica per meglio salvaguardare il suo lascito politico.

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