Un’immagine del volto di Che Guevara innalzata durante una manifestazione studentesca negli anni Settanta a Milano

Mille chitarre per il “Che”

Stefano Di Michele

C’era sempre chi aveva una chitarra. Sempre. Senza scampo. Tutta l’epica castrista – e perciò soprattutto guevarista: ché Fidel si è con gli anni inquartato, un satrapo dai fianchi larghi, venuto a noia; mentre il Che lì sempre stava, basco e barba e chioma al vento.

C’era sempre chi aveva una chitarra. Sempre. Senza scampo. Tutta l’epica castrista – e perciò soprattutto guevarista: ché Fidel si è con gli anni inquartato, un satrapo dai fianchi larghi, venuto a noia; mentre il Che lì sempre stava, basco e barba e chioma al vento, alla morte (e perciò all’eternità) consegnato con quelle foto da qualche sprofondo boliviano che ne facevano una sorte di bellissimo Cristo morente del Mantegna – è stata qui da noi, in Italia, soprattutto epoca di schitarrate. Due accordi, non c’era chi non li conoscesse, chi non rapidamente li apprendesse – e allora, se la scuola era occupata, se il fuoco sulla spiaggia ardeva e la sabbia di Ostia come “la histórica altura” appariva, se il corteo festoso avanzava, “de tu querida presencia / hasta siempre comandante!” sempre, siempre, sempre! Adesso che “todos somos americanos”, e sul Malecón si festeggia – el gringo ormai rincoglionito e i barbudos dal pelo imbiancato e dal non minore rincoglionimento, il ghiotto sigaro con l’effigie della sigaraia mulatta e pettoruta e il Cuba libre dal nome allusivo (più Coca e più rum per tutti!), ora che Hemingway che di qua arriva e Reinaldo Arenas di là fugge (per ammazzarsi alla fine tutti e due) finalmente s’incrociano – forse pure le stanche corde della chitarra, che mirabilmente si accordavano tra l’impeto rivoluzionario e il Mino Reitano di “una chitarra / cento illusioni”, taceranno. O forse no – perché quel che ormai e ancora resta della rivoluzione cubana (saranno le spiagge e le palme, il sole caldo e il Che che fa piacere confondere con Antonio Banderas e Benicio del Toro, le rinomate cubane dall’alto stacco di coscia e il culo imperioso e l’approccio da Fregene caraibica) è depositato, oltre che nella memoria e negli accordi di alcuni, soprattutto nei dépliant delle agenzie turistiche e nelle prime cinematografiche. Ci vuole poco – poco, poi, per modo di dire: insomma, è più facile – a staccare il cuore e la testa dalle schifezze della rivoluzione culturale maoista o dalla gelida ferocia leninista, ove mai “la questione cardinale della primavera” fu risolta così che pure Majakovskij tirò il grilletto, ma dove la sabbia scotta e il vento accarezza la pelle, più facilmente la nostalgia persiste. Cuba è stata per decenni l’ultimo nobile ridotto dell’antiamericanismo – il Davide che Golia fronteggia, la mosca che l’elefante tormenta, il piccolo Loch Ness davanti alle coste della Florida. E d’altra parte, la fama sinistra di certi anticastristi di là approdati – quelli che vagano cupi nei film di Oliver Stone, o il gangster Tony Montana di Al Pacino, o peggio ancora, sinistri e violenti e affittabili, nelle storie americane di James Ellroy – il cuore oltre l’ostacolo assecondava.

 

Cuba, nel mondo, fu la crisi dei missili e la Baia dei Porci, Kennedy e la possibilità di assassinare Castro – e la fenomenale sopravvivenza dello stesso: a ogni tentativo di accopparlo, alle sue stesse malattie, ai decenni passati dalle gloriose storie di Santa Clara e dello sbarco col battello “Granma” (di proprietà di uno statunitense, così battezzato in onore della nonna, “grandmother”) appunto degli “expedicionarios del yate Granma”, per iniziare lo spariglio con quel tanghero fetente di Fulgencio Batista, e da qui il nome pure del giornale di partito, “Granma”, da qui pure il nome di un’intera provincia cubana, provincia di Granma (i rivoluzionari, di solito, amano moltissimo autocitarsi e autointitolarsi). Solo lo sfregio dell’enclave di Guantanamo ha resistito impavido – al cinema impersonato dall’odioso col. Nathan R. Jessup di Jack Nicholson, “tu non puoi reggere la verità!”, messo alle corde da quel pischello sfacciato del ten. indagatore Tom Cruise. Del resto, se in Italia ci fu gran massa di comunisti che per decenni si illusero, “e noi faremo come la Russia / noi squilleremo il campanel /falce e martello! / falce e martello! / e noi faremo come la Russia / chi non lavora non mangerà”, e qualche fenomenale pulsione maoista, con matrimoni secondo il dettato del Timoniere e apposito spettacolo di Dario Fo (“Storia della tigre”), l’idea di fare come Cuba, sbarcare magari col battello in zona Ladispoli manco fosse la Playa Las Coloradas, saggiamente non venne a nessuno. Castristi, non ve ne fu mai grande abbondanza da queste parti – al più, qualche bandiera sparsa, “todos somos Fidel!” oppure “adelante, comandante!”, senza che mai il pronunciamento precedesse l’alzamiento rivoluzionario, forse al massimo la generosa visione, chissà se mai per intero, dell’intervista di sedici ore sedici, “dalle due del pomeriggio di domenica 28 giungo 1987 alle cinque del mattino del lunedì seguente”, di Gianni Minà al suddetto Fidel: una roba che andava più per le lunghe del “Trono di spade” – eppure lo stesso il mito di Cuba ebbe la sua persistenza, il suo allungarsi nei decenni, per cui ancora cene di solidarietà con l’isola si possono qua e là trovare organizzate, video di certe serate memoribili a Genzano, su per i Castelli Romani, insieme a S. E. l’ambasciatore, “tombolate con premi” e “grande riffa di solidarietà”.

 

Si recuperano persino tracce della gloriosa “VII Brigata Internazionale di lavoro volontario Ernesto Che Guevara” che, onde “condividere gioia e fatiche con i lavoratori cubani, organizzava il “1° maggio all’Havana”, e solidarietà corposa dalla Liguria, “con Cuba e per Cuba”, con tanto di “turismo solidale” (qualunque cosa significhi) e “brigate di lavoro”, così che “oltre alla ‘Brigata internazionale José Martí ’, che si svolge ormai da anni ed è dedicata alla attività del taglio della canna da zucchero, sono state realizzate dalla Liguria cinque micro-brigate composte da compagni che hanno lavorato volontariamente a opere di manutenzione o ristrutturazione di edifici pubblici”. Ci sono di quelli che “el Campamento Internacional” sognano e bramano, disciplinatamente disposti a seguire le opportune indicazioni: “Ogni brigadista dovrà portare 2 fototessera della misura 4 x 4 cm. per la tessera che lo accredita come brigadista, abiti e scarpe adeguati (camicie a manica lunga, pantaloni lunghi, guanti, scarpe da lavoro e berretto o cappello) per realizzare i lavori produttivi”. E su internet, peraltro e a riprova, si riscontra ancora vasta disponibilità di italiche fresche forze pronte ad afferrare il machete rivoluzionario per fronteggiare la canna da zucchero proletaria: “Io e mio fratello stiamo cercando un’associazione che ci permetta di partire per fare volontariato a Cuba”. “Ciao! Mi chiamo Tecla, puoi dare anche a me qualche dritta per fare volontariato di qualsiasi tipo a Cuba?”. “Ciao. Mi chiamo Marco, a ottobre ho un mese di ferie e vorrei tanto partire per Cuba e rendermi utile”, ecc. ecc., avanti così, vangando e arando senza sosta. 

 

Quasi sempre non è l’eterno Fidel – né tantomeno la geriatrica transizione col fratello Raúl – a smuovere l’italica passione. E’ quell’altro – quello bello, quello guerrigliero, quello scattante, che né dai reumatismi né dalla calvizie né dal grigiore di ogni post rivoluzione (che sempre evapora, sapeva Kakfa, “e non resta che il limo di una nuova burocrazia”) fu raggiunto: Ernesto Rafael Guevara de la Serna, inteso il Che. Uno che la rivoluzione stessa travalica – e fosse stato, per dire, invece che così dannatamente “encabronado y dolente”, corrucciato e triste, come per sempre è apparso e sempre apparirà, più somigliante a un Vito Crimi o a un Di Battista (per dire di due rivoluzionari di novello conio), la storia forse sarebbe stata diversa. Almeno quella del mito che ormai dura da cinquant’anni. E che più dei barbudos messi in massa a far parapiglia con tutti gli yankee del globo terracqueo, due uomini hanno contribuito a edificare quel mito. E uno era un italiano. Innanzi tutto Alberto Korda, il fotografo che il 5 marzo del 1960, all’Avana, scattò quell’immagine al Che, al “Guerrillero Heroico”, proprio quella destinata a finire sui poster, sulle magliette, sui portachiavi, sui posacenere, sugli zainetti. Occhio travagliato, barba scompigliata, capelli nel vento – stella e baschetto / rivoluzionario perfetto. “Mi sorprese il suo sguardo e schiacciai l’otturatore. Riuscii a fare due scatti solamente, perché il Che scese di nuovo dove stava prima”. (Per dire, diciamo così, di una non eccessiva flessibilità mentale dell’eroico guerriero, è sempre Korda che racconta di quando andò a fotografare lo stesso con Fidel, “mi lanciò quello sguardo inquisitore che gli faceva inarcare le ciglia e mi disse: ‘Ragazzo mio, sembri un vero gringo con tutte quelle macchine al collo! Non lo sai che tutti quei rullini costano in moneta forte al paese e tu li stai sciupando?’” – e peraltro, il povero Korda i rullini li aveva comprati con i suoi soldi). L’altro uomo fu Giangiacomo Feltrinelli – che proprio nello studio di Korda, dopo la morte del Che, trovò l’immagine di quel giorno del 1960 – e da quel giorno il mito ebbe inizio. Feltrinelli ne fece un poster alto un metro, ne vendette un milione di copie (l’immagine più riprodotta, assicura qualcuno, della storia della fotografia), non ci fu adolescenziale cameretta nazionale che non ne avesse almeno uno, con una lenta trasmigrazione che, dai muri, ha invaso utensili vari e vario abbigliamento. Così che ora, su internet, è possibile approdare persino al “Che Guevara Store” ove – tra “Che Guevara Merchandise” e “Che Guevara Tank Tops” e “Che Guevara T-shirts”, tra “Che Guevara Accessories” e “Che Guevara Collectibles” – dal berretto all’accendino, dalla felpa alla borsa, nulla resta sguarnito dal punto di vista estetico/rivoluzionario. “Andiamo a comprare le magliette di marca Che Guevara!”, come dice Checco Zalone in un film. Un rivoluzionario mutato in marca – davvero un bel paradosso.

 

Un mezzo secolo di chitarre all’opera – e la bella immagine che sopravanzava sui cortei pacifisti, che s’innalzava sopra quelli del Gay Pride, che sfilava accanto ai metalmeccanici (felpa “Fiom” con aggiunta di Ernesto anziché Cipputi). Dappertutto – l’Icona Prezzemolimo, quella del Che. E così si trascinava dietro per inerzia il peso morto della rivoluzione cubana. “Aquíse queda la clara / la entrañable trasparencia / de tu querida presencia / comandante Che Guevara” – perciò: qui rimane la chiara / penetrante trasparenza / della tua presenza… Senza essere per nulla pacifista, il Che – “l’odio come fattore di lotta; l’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere” (a leggerlo sulla rivista Tricontinental). Avendo sui sensibili suoi coglioni rivoluzionari, le checche isolane tutte, i “maricones”, notoriamente mancanti nei confronti della “morale rivoluzionaria”, e così anni fa ci fu accesa polemica a sinistra, nell’Arcigay, tra il barbuto fascinoso che sfilava fianco a fianco delle drag queen e il tenutario di certi campi di brutale rieducazione. Fascino macho e machista estremo (e certi che ce l’avevano col mite Buttiglione omofobo, con la bandiera del barbuto levata alta sfilavano). Che lì, a Cuba, stando la “querida presencia” sempre all’erta, avvertivano i firmatari gay e di sinistra di un appello, docenti e studenti venivano cacciati da scuola, e i medici dagli ospedali, un anno di galera per “avances amorose omosessuali”: leggete magari i versi del Che (Pure poeta? Pure poeta!), sana gioventù, piuttosto che il troppo erotico Lezama Lima.

 

[**Video_box_2**]Ma ecco: come si fa a cambiare le abitudini? Infatti, non cambiano: sempre lì il Che resta, saldo artefice del cioccolato anziché della fragola – quel delicato film, “Fragola e cioccolato” (da un racconto di Senel Paz), che raccontava l’impensabile amicizia, nella Cuba castrista, tra il giovane militante comunista David e il giovane omosessuale Diego – che subito si fa beccare, lì in gelateria, mentre cerca di abbordare il virile compagno: “Gli ho gettato un’occhiata: non c’era bisogno di essere un’aquila per capire che razza di tipo era; comunque, c’era il gelato di cioccolato e lui aveva preso quello di fragola”. Significasse il Che ancora politicamente qualcosa – almeno il poco che la Cuba di Castro ancora significa – sarebbe ridotto all’irrilevanza, ma siccome è mito, come con i miti c’è poco da fare: bisogna tenerseli, se la noia non li supera. Così che pure a destra, tra i fasci, ha successo; persino nelle librerie di destra, anni fa, risultava autore tra i più venduti. Ha spiegato il professor Luciano Canfora, illustre studioso, oltre che marxista non meno illustre: “Il Che è un gadget: una maglietta, un poster, un simbolo a circolazione turistica e commerciale usato da più fronti”. Giorgio Amendola, che era saggio e comunista, di pessimo carattere e sguardo lungo, lo definiva “stratega da farmacia”, eppure ancora tre anni fa, in occasione del 44esimo anniversario della morte, un misterioso necrologio è comparso sulle pagine di Repubblica: “Oggi ricorre l’anniversario della morte di Ernesto Che Guevara. Quel giorno anche gli uccelli si fermarono in volo e versarono lacrime di pietra. All’uomo straordinario che ha speso la sua esistenza nella lotta per le cause più nobili. Ancora oggi, ovunque, enormi moltitudini vivono nel suo incancellabile ricordo”. Firma: E. C. Francesco Guccini, della faccenda ancora non si dà pace: “Ci prese come un pugno, ci gelò di sconforto / sapere a brutto grugno che Guevara era morto…”. E il più giovane Daniele Silvestri, col ritornello efficace ma allegro per niente, da svelto toccamento, “venceremos adelante / o victoria o muerte”, canta “in un’isola cubana, una favola lontana / che vorrei tu conoscessi almeno un po’. / C’è un’ipotesi migliore, per cui battersi e morire / e non credere a chi dice di no / perché c’è…”. E appena ieri, sulla prima pagina del Fatto, in una vignetta di Vauro, il Papa veniva appellato “FranChe” – con berretto e barba e stella.

 

Del resto, se il sole e le spiagge e la curvatura delle danze caraibiche aiutano, di sicuro c’è stata pure, oltre la faccia perfetta, la musica adeguata. Ballabile. Da sogno che si conserva. Che resiste – due palle, ma che resistenza! Né qualcosa di paragonabile era possibile per i dittatori di destra – i fascisti, i generali, i gorilla, i gangster al potere: facce da beccamorti, occhiali neri, odore mischiato di morte e incenso. Di suo, bellezza di maschio caliente a parte, Guevara era soprattutto un formidabile forgiatore di slogan, sorta di Mad Man della causa rivoluzionaria, cose buone per essere mandate a memoria ed elevare la propria autoconsiderazione. Da far invidia al Mascellone nostro. Del tipo: “La Rivoluzione si fa attraverso l’uomo, ma l’uomo deve forgiare giorno per giorno il suo spirito rivoluzionario”, oppure “Il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore”, o anche “Se io muoio non piangere per me, fai quello che facevo io e continuerò a vivere in te”. Qualche pentito c’è stato, nel corso degli anni. Saverio Tutino, il giornalista che più di tutti (prima all’Unità, poi a Repubblica) ha contribuito alla creazione del mito di Cuba in Italia, già vent’anni fa ammetteva con il Corriere: “Mi sono sbagliato e ho pagato per quello sbaglio. Il mito nasce quando un uomo politico lo crea intorno a sé. E, tra tanti difetti, bisogna riconoscere a Castro di essere un politico di notevole calibro. Ha capito che la politica si fa con i miti e non con i decreti”. Persino Rossana Rossanda, nel ’96, mise in discussione il mito esibito del Che sulle magliette di tanti ragazzi (però nella pagina accanto del giornale, segnalarono le cronache, c’era la pubblicità, proprio con la nota foto di Korda, di una festa in quel di Correggio. Titolo: “Il Che vive”). Fausto Bertinotti, capo di Rifondazione, rispose con la mistica e la poesia, a modo suo: “Quando i giovani con le magliette del Che arrivano nelle nostre sezioni trovano una coreografia respingente. Questo non deve accadere”. Magari, adesso che tutto si avvia verso l’epilogo, si farà pure il cambio di stagione. Però, pure la t-shirt con la faccia di Obama ormai pare smessa. In Italia e in Usa. Magari andrà forte a Cuba.

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