Obama e i regimi

La chiave strategica della svolta di Cuba si chiama Panamerica

Maurizio Stefanini

“Siamo tutti americani”. Barack Obama lo ha detto solo verso la fine, nel discorso pronunciato mercoledì per annunciare la grande svolta nei confronti di Cuba. Forse è questa la chiave geopolitica e geostrategica più importante per spiegare la sua decisione.

Roma. “Siamo tutti americani”. Barack Obama lo ha detto solo verso la fine, nel discorso pronunciato mercoledì per annunciare la grande svolta nei confronti di Cuba. Forse è questa la chiave geopolitica e geostrategica più importante per spiegare la sua decisione. Più importante ancora degli interessi economici, che pure ci sono. Più importante ancora della volontà di lasciare un segno nella storia, ora che il mandato si avvicina alla fine e bisogna trovare qualcosa con cui riempire la colonnina dei successi. Più importante ancora della constatazione ormai ampiamente condivisa che in mezzo secolo l’embargo al regime dei fratelli Castro non è riuscito a ottenere risultati significativi.

 

“Siamo tutti americani”, infatti, significa Panamerica. Quel progetto di integrazione dell’emisfero che è stato una delle stelle polari della politica estera degli Stati Uniti. L’America agli americani di Monroe. Il Buon vicinato di Franklin Delano Roosevelt. L’Organizzazione degli stati americani (Osa) creata nel 1948 da Harry Truman. L’Alleanza per il progresso di Kennedy. I vertici delle Americhe che si fanno ogni due anni da quando Bill Clinton li inventò nel 1992 a Miami. Scopo dei Vertici delle Americhe avrebbe dovuto essere quello di promuovere l’Enterprise for the Americas Initiative, il grande progetto per una zona di libero scambio dallo Stretto di Bering alla Terra del Fuoco, in cui oltre che Bill Clinton ha creduto anche George W. Bush. Vogliamo ricordare che il panamericanismo è stato anche “Saludos Amigos” e “I tre caballeros”? I cartoni animati che Walt Disney realizzò negli anni difficili della Seconda guerra mondiale, per esaltare la simbolica amicizia tra un papero statunitense, un galletto messicano e un pappagallo brasiliano.

 

Il nazionalismo latinoamericano, però, ricorda che gli Stati Uniti sono stati anche la guerra al Messico, gli interventi dei marine, l’appoggio della Cia ai colpi di stato, il “Grosso Bastone” dell’altro Roosevelt. E Cuba di questo nazionalismo è diventata un simbolo. Nell’immaginario anti gringos che ancora non ha smesso di fare danni in tutta la regione, Cuba è il piccolo paese che non si è piegato al colosso in nome di ideali democratici e contro la dittatura del capitalismo. In questo vittimismo i politici populisti hanno potuto sguazzare senza ritegno, peggiorando spesso i problemi della regione. Però dal 2000 in poi è stato proprio sotto i governi di politici populisti in gran parte divenuti pragmatici che quasi tutta l’America latina ha conosciuto una crescita senza precedenti. E’ stata la cosiddetta “ondata a sinistra”, che mostra oggi qualche segno di esaurimento, ma nel complesso ha cambiato le cose in meglio.

 

Proprio con questi governi, però, l’Enterprise for Americas è saltata. Al suo posto, sono cresciute in quantità le istanze di integrazione alternative, in cui i paesi latino-americani si ritrovano senza gli Stati Uniti: dalla Celac all’Unasur passando per il Mercosur, l’Alleanza del Pacifico o l’Alba. Per non parlare degli accordi con potenze extracontinentali: dal Brics ai Vertici Ibero-Americani, e della caccia grossa che nella regione hanno fatto negli ultimi tempi Russia e Cina, con accordi e investimenti.

 

[**Video_box_2**]Le dimensioni geopolitiche e geoeconomiche degli Stati Uniti impediscono di concludere che alla fine siano stati loro a rimanere isolati, piuttosto che Cuba. Ma certo è che Cuba nelle relazioni con la regione è diventata sempre di più una palla al piede. “Oggi rinnoviamo la nostra leadership nelle Americhe”, ha dunque spiegato Obama. “Ci liberiamo dalle zavorre del passato, perché è necessario realizzare un futuro migliore: per i nostri interessi nazionali, per le persone che vivono negli Stati Uniti e per il popolo cubano”. Tra la grande quantità di segnali che hanno preceduto il clamoroso annuncio della distensione tra Washington e L’Avana, quello forse decisivo è venuto il 12 dicembre, quando il governo cubano ha risposto all’invito che gli era stato fatto, confermando ufficialmente la presenza di Raúl Castro al Vertice delle Americhe di Panama dell’11 e 12 aprile. Obama ha ora rivelato che gli Stati Uniti erano stati coinvolti in questo invito. Il 10 dicembre anche il ministro degli Esteri boliviano David Choquehuanca ha detto che la Bolivia di Evo Morales sta cercando di riavviare le relazioni con gli Stati Uniti interrotte nel settembre del 2008, quando l’ambasciatore Philip Goldberg fu espulso con l’accusa di interferenza negli affari interni boliviani. Insomma, il filo del panamericanismo viene riannodato. Proprio nel punto in cui si era spezzato.

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