E’ qui la lista? Da sinistra a destra, il presidente del Consiglio Matteo Renzi; il presidente del Senato Pietro Grasso; il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (foto Lapresse)

Chi si mena per il Quirinale

Claudio Cerasa

Nomi, spin, candidati, storie e metodi. Orientarsi sul dopo Napolitano. Manuale anti veline.

Nella Repubblica delle veline, dove lo spin viene spesso confuso con le notizie e dove le soffiate vengono spesso trasformate in straordinerie inchieste giornalistiche, l’unico modo per orientarsi tra mille spifferi è quello di raccontare da chi arrivano le veline e soprattutto perché al cronista arriva una velina invece che un’altra. Nell’èra del governo Leopolda, dove la velocità delle notizie tende più a depistare che a informare, il regno magico dello spin diventerà presto il terreno legato alla successione di Giorgio Napolitano. Intorno alla scelta del prossimo capo dello stato, le voci che girano si presentano il più delle volte in forme incontrollate stile “Secondo tragico Fantozzi” (“Nel buio della sala correvano voci incontrollate e pazzesche. Si diceva che l’Italia stava vincendo per 20 a 0 e che aveva segnato anche Zoff di testa, su calcio d’angolo…”). E così, per provare a orientarci su quella che sarà la partita politicamente più appassionante del 2015, vi proponiamo un piccolo manuale anti velina. Per capire perché nelle prossime settimane vi ritroverete spesso a dover fare i conti con alcuni di questi nomi associati al dopo Napolitano.

 

Paolo Gentiloni. Più che un nome, è diventato un metodo. E stando al metodo, il nome “Gentiloni” contiene tutta l’essenza delle candidature renziane. Un volto non troppo conosciuto, non troppo di sinistra, molto cattolico, molto leale, molto di fiducia, molto di famiglia, molto elegante, persino competente, che esce fuori dal cilindro quando gli altri nomi sono stati abilmente bruciati e quando le mediazioni sono arrivate al loro termine. Funziona così: prima propongo un candidato ganzississimo e giovanissimo, più o meno minorenne, che piace tanto alla gente che piace (possibilmente donna). Poi mi confronto con il mio interlocutore e propongo un candidato poco più che maggiorenne (e possibilmente donna) che non ha però nessuna possibilità di essere. Insisto. Faccio finta di essere irremovibile. E quando il mio interlocutore è sfinito – taaac – piazzo il mio candidato a sorpresa. Con il ministero degli Esteri è andata così (e Gentiloni, si scopre oggi, era da sempre la prima scelta di Renzi). E con il Quirinale, nei piani di Renzi, dovrebbe andare allo stesso modo. Con lo stesso metodo. E magari, come comincia a dire chi nel governo ha buona consuetudine con i dossier legati a nomine e candidature, anche con lo stesso nome. Francesco Bei di Repubblica è stato il primo a notare sabato scorso che la presenza di Andrea Guerra in Australia con Renzi potrebbe essere legata al fatto che il presidente del Consiglio si sta già muovendo per trovare un possibile sostituto nel caso Gentiloni dovesse fare un passo verso l’alto. La voce gira e non è campata in aria. Gentiloni piace fuori dal Pd, non dispiace al gruppo del Pd, potrebbe avere qualche problema con il gruppo bersaniano (che ha sempre maltrattato ai tempi della segreteria Bersani), ma nella logica di Renzi è il candidato tipo (anche in previsione di possibili elezioni anticipate). E la tappa al ministero degli Esteri, dice la velina del giro renziano, potrebbe essere anche un modo per far conoscere Gentiloni un po’ di più all’estero. In Europa. In Germania. E soprattutto in America. Dove il ministro, in tempo per il discorso di fine anno di Napolitano, dovrebbe incontrare entro la fine dell’anno l’Amministrazione Obama. Chissà.

 

Anna Finocchiaro. Con Anna Finocchiaro la formula adottata dai renziani è quello della profumiera. Lasciare intendere che. Fare immaginare che. Non escludere che. Fare in modo che lei capisca che. Anna Finocchiaro, oggi, ha un ruolo strategico nel Pd: al Senato, è la presidente della commissione Affari costituzionali, e le più importanti riforme del governo Renzi passano da qui. La legge elettorale (di cui ora è relatrice a Palazzo Madama). La riforma del Senato. La riforma del Titolo V. La riduzione del numero dei parlamentari (tutti provvedimenti, questi ultimi già approvati nel regno Finocchiaro). A questa commissione Renzi tiene in modo particolare (do you remember mister Corradino Mineo?) e il messaggio che il presidente del Consiglio ha chiesto di far arrivare da tempo alla signora in rosso è più o meno il seguente: fatele credere che ci sia anche una minima, microscopica, possibilità che il suo nome sia nella rosa e vedrete che Anna nostra mostrerà il suo lato più tenero, e più umano. Finocchiaro (che piace tanto a Forza Italia e alla Lega di rito maroniano) sa di non avere grandi possibilità di andare al Quirinale, non fosse altro che un anno e mezzo fa, quando il nome Finocchiaro finì nella rosa di Bersani, fu proprio Renzi a rottamarla a reti unificate, ricordando la famosa foto all’Ikea (con scorta) della signora Anna (che replicò all’attacco definendo Renzi “un miserabile”). Finocchiaro dunque non ci crede ma clamorosamente – la velina arriva da qui – ci credono i senatori e i deputati del Pd di rito post dalemiano e post bersaniano (area Cuperlo, area Speranza). Ragionamento: “E’ l’unica donna spendibile e se la situazione dovesse incartarsi Anna eccome se torna in campo”. Numero di veline recenti e attendibili ricevute sul nome Finocchiaro: due. Pazza Ikea.

 

Walter Veltroni. Un imprenditore amico di Walter Veltroni e di Giorgio Napolitano racconta che una mattina di qualche mese fa il presidente del Consiglio, durante un colloquio privato con il presidente della Repubblica, ragionando sul possibile prossimo inquilino del Quirinale, ha esposto a Re George non la lista di coloro che il Rottamatore vorrebbe candidare ma la lista di coloro che direttamente o indirettamente hanno fatto arrivare la propria candidatura a Palazzo Chigi. Renzi ha aperto la mano e ha elencato cinque nomi: Pinotti, Fassino, Franceschini, Prodi e, testuale, “persino Veltroni”. In quel “persino” c’è tutta la storia della candidatura dell’ex segretario Pd. Candidatura, e autocandidatura, che Veltroni smentisce (e bisogna credergli) ma che in teoria avrebbe tutte le carte in regola per essere in campo: ex sindaco, ex segretario del Pd, precursore del Patto del Nazareno, apprezzato da una buona parte del Pd (anche dai popolari), apprezzato dal centro, apprezzato da Forza Italia, coccolato dal partito trasversale della Cultura, portato in adorazione dal partito di Fandango, apprezzato dal presidente della Repubblica. Ma, problemino, non amato troppo da Renzi e dal suo giro fiorentino: non vedono in lui la persona giusta con cui il presidente del Consiglio possa veder riflessa anche la sua immagine al Quirinale e quando pensano all’ex sindaco, intimamente, pensano la stessa cosa che Renzi disse a Firenze nel settembre 2012: “Veltroni? Direi che i successi maggiori li ha avuti come romanziere, gli auguro tanti romanzi belli per il futuro”. Le veline sulla candidatura di W. arrivano soprattutto dal vecchio Pd romano. Dall’establishment legato anche per affetto all’ex sindaco di Roma. Ma quando si parla di Veltroni a Palazzo Chigi in molti ammettono che il nome potrebbe spuntare fuori all’improvviso anche se (versione renziana) in realtà l’unica presidenza per la quale Walter ha speranza oggi non si chiama Colle ma si chiama Rai. Numero di veline ricevute nell’ultimo mese su Veltroni al Quirinale: dieci. Numero di veline attendibili ricevute nell’ultimo mese su Veltroni al Quirinale: mezza.

 

Graziano Delrio. In teoria Graziano Delrio, almeno sulla carta, è un candidato quasi perfetto dell’èra Renzi. E’ un ex sindaco, il che non guasta. E’ renziano della prima ora, il che non guasta. E’ cattolico, il che non guasta (anche per le gerarchie vaticane). Non ha nemici nel Pd, il che non guasta. E’ apprezzato da molti vecchi del Pd (da Prodi a Marini), e non è male. E’ il punto di riferimento a Palazzo Chigi dei renziani della prima ora, e il che non guasta. E’ amato da Napolitano, e il che aiuta. E’ il punto di riferimento dell’Anci, di cui era presidente fino a due anni fa (e nel governo l’Anci conta, eccome se conta: chiedere ad Angelo Rughetti). E’ espressione di una serie di equilibri di potere presenti anche nella sua regione natale (che è l’Emilia Romagna, regione da cui proviene un decimo dei parlamentari del Pd, 41 su 407). E’ fedele e leale con il presidente del Consiglio (anche se a Palazzo Chigi non è mai entrato in sintonia con il braccio destro di Renzi, Luca Lotti, il che non è poco). Piace alla minoranza del Pd (chiedere a Cuperlo, a Orfini, a Zingaretti). Suscita simpatia (non manifesta) anche nel Movimento 5 stelle (in Emilia Romagna Delrio ha buoni rapporti con diversi interlocutori grillini). Ed è considerato uno dei pochi renziani che avrebbe gli strumenti per proteggersi dalla carica dei 101. La velina “Delrio” non arriva da Palazzo Chigi ma dai renziani presenti nei gruppi parlamentari del Pd, e meno coinvolti nel governo. Nel gruppo alla Camera sponsor massimo di Delrio è Matteo Richetti, che sul gruppo renziano (51 esponenti, tra Camera e Senato) ha un grande ascendente. Come tutte le ipotesi possibili, lo spin sulla candidatura di Delrio è inversamente proporzionale alle chance del candidato. Numero di veline attendibili ricevute nell’ultimo mese su Delrio al Quirinale: una. Il percorso c’è. E i groupie del sottosegretario sono al lavoro.

 

Dario Franceschini. Le premesse in fondo ci sono tutte e se nel Partito democratico c’è una certezza è che Dario Franceschini, tatticamente, non ha mai sbagliato una mossa in vita sua. Renzi, scherzando, ogni tanto ricorda che “nel Pd si dice che c’è maggioranza dove c’è Franceschini” e questa volta la maggioranza silenziosa che l’ex segretario del Pd e attuale ministro dei Beni culturali sta provando a sondare e a verificare è quella relativa alla base potenziale che potrebbe avere la sua candidatura al Quirinale. Il consenso di Forza Italia c’è, ed è buono (e nel centrodestra tutti ricordano che fu Franceschini uno dei primi dirigenti Pd che suggerì a Bersani di rottamare l’idea del governo con i 5 stelle e di rivolgersi direttamente al Pdl). Ma quello che manca è, in generale, il consenso nel Pd. E le giravolte politiche contestate al ministro (a Franceschini riproveranno di essere passato, con discreta prontezza di riflessi, dal marinismo al dalemismo, dal dalemismo al veltronismo, dal veltronismo al bersanismo, dal bersanismo al lettismo, dal lettismo al renzismo) potrebbero prestare il fianco dell’ex segretario al fuoco amico. Franceschini sa che non potrà essere mai la prima scelta di Renzi ma sa anche che nella girandola dei nomi il suo c’è e per questo si attrezza e prova anche lui a costruire il profilo di perfetta riserva della repubblica. E così decide di comunicare a Renzi di aver sciolto la sua corrente (Area Dem, corrente che Franceschini gestisce con Fassino, non si riunisce dai tempi del governo Letta). E così decide di rilasciare interviste legate solo al suo stretto ambito ministeriale (tranne un’eccezione con Repubblica e una con Fazio). La velina sul nome di Franceschini viene dai nemici di Franceschini (ex Ds) che sperano oggi di poter giocare con il suo nome per lanciare il proprio candidato (un professionista della tattica sa che la possibilità di raggiungere un obiettivo è inversamente proporzionale al numero di volte che il tuo nome viene associato a quell’obiettivo). Franceschini ci scherza su. Dice che “è solo un gioco”. Ma come dicono a Palazzo Chigi, “se Dario fosse donna sarebbe già al Quirinale”. Diventare donna non sarà semplice neanche per un mago della tattica come Franceschini. Ma tagliare la barba, quanto meno, potrebbe essere un messaggio per indicare una giusta direzione.

 

Romano Prodi. Esattamente come un anno e mezzo fa – ai tempi della prima candidatura al Quirinale – Romano Prodi oggi tiene a precisare (deve essere una specie di rito scaramantico) che la sua candidatura al dopo Napolitano semplicemente non esiste: “Non voglio né ho mai voluto arrivare al Colle”, ha detto pochi giorni fa al Corriere della Sera, usando più o meno le stesse parole profetiche dell’aprile 2013: “Ho già detto e lo ripeto: non sono interessato al Quirinale”. Detto e candidato. Nello schema di Matteo Renzi, schema che prevede un accordo strategico con Forza Italia (o meglio: con Berlusconi) per eleggere un presidente della Repubblica che possa resistere al fuoco dei franchi tiratori, il nome di Romano Prodi trova piena cittadinanza solo e soltanto in un’unica occasione: se il patto del Nazareno dovesse perdere consistenza e se l’unica soluzione possibile per eleggere il successore di Giorgio Napolitano dovesse essere quella di aderire allo schema già seguìto in Parlamento per la scelta (concordata tra Pd e M5s) di Alessio Zaccaria al Csm (537 voti) e Silvana Sciarra alla Consulta (630 voti). Il ragionamento non fa una piega e senza contare i grandi elettori che parteciperanno all’elezione del successore di Napolitano (sono 58, e sono quasi tutti di area governativa), a oggi il Pd e il Movimento 5 stelle possono disporre di 550 voti (407 il Pd, 143 M5s). Che sommati ai 33 di Sel e ai 15 senatori usciti dal 5 stelle fanno 598 (93 in più dei voti necessari per eleggere dalla terza votazione in poi il presidente della Repubblica). I teorici della carta Prodi non si trovano solo tra chi, come Civati, propone al 5 stelle di puntare sul Prof per scardinare il gruppo parlamentare del Pd. Ma anche tra chi, nel giro Renzi, teme che gli scricchiolii del Nazareno possano corrispondere a un ammutinamento improvviso del gruppo parlamentare. Nuovi 101 per riscattare la vecchia carica dei 101. E il Prof,, dicendo di non crederci, dimostra ovviamente di crederci. Numero di veline attendibili ricevute su Prodi: due, entrambe però sussurate con voce tremante.

 


Piero Fassino. Fra tutti i nomi suggeriti ai cronisti, il nome di Piero Fassino coincide con il candidato che più degli altri crede alla possibilità che la velina sul suo nome non sia solo una velina ma sia qualcosa di più. In altre parole: quasi nessuno crede che Fassino sia un candidato che abbia chance di finire nella rosa dei quirinabili, ma in compenso Fassino crede molto che il suo nome possa comparire magicamente – oplà – nell’elenco delle riserve della Repubblica renziana. E così Fassino si dà molto da fare. Rivendica, quando può, che questo governo non è solo il governo Leopolda ma è anche il governo Fassino. Sia perché il sindaco di Torino è stato il primo pezzo grosso della vecchia guardia dei Ds a suggerire il nome di Matteo Renzi a Palazzo Chigi già un anno e mezzo fa (e Fassino lo ripete ai suoi interlocutori con la stessa frequenza con cui ripete che, senza il suo sacrificio da segretario dei Ds, il Pd non sarebbe mai nato). Sia perché Fassino considera sue creature molti volti di primo piano arrivati a rappresentare l’Italia nell’èra Renzi (“Tu lo sai che Mogherini, Martina, Orlando e Pinotti sono figli miei, no?”). I renziani, diabolici, dicono che “Piero” non ha possibilità (sintesi del problema: “Non possiamo avere al Colle l’uomo dell’abbiamo una banca”) ma hanno fatto arrivare alle persone giuste la voce – psssss – che Fassino sia nella rosa. Sia per affetto nei confronti del sindaco (che negli ultimi sei mesi è stato candidato più o meno a tutto: dalla segreteria del Pd fino al ruolo di mister Pesc) sia perché sanno che Fassino ricopre una carica importante: la presidenza dell’Anci. E oggi che le città protestano, che i sindaci si incazzano e che i comuni (anche quelli renziani) tirerebbero in testa a Renzi la legge di stabilità, avere un presidente dell’Anci sognante e non ostile, anche se indipendente, fino a che il gioco regge, per il presidente del Consiglio è un’arma in più.

 

[**Video_box_2**]Roberta Pinotti. A differenza di tutti gli altri candidati che vivono nelle veline sul Quirinale, il nome di Roberta Pinotti è uno dei pochi che può considerarsi presente in una lista speciale, che salvo sorprese sarà parte integrante della lista che Renzi proporrà quando arriverà il momento di scegliere il successore di Napolitano. La lista in questione è quella dello stretto giro fiorentino renziano e il nome di Pinotti intercetta il gradimento dei più giovani renziani della prima ora, tutti convinti che se donna deve essere, il prossimo presidente della Repubblica, alla fine Pinotti sarà (a meno che Franceschini non compia qualche miracolo). Pinotti – ministro della Difesa, ottimi rapporti con Napolitano, buoni rapporti con l’establishment americano, stimata sia nel giro renziano sia nel giro franceschiniano sia nel giro diessino – è sostenuta da una delle correnti più importanti del Partito democratico che corrisponde al nome di Area Dem e l’accusa di inesperienza che molti osservatori riservano all’unico ministro donna del governo che abbia superato la soglia minima per essere eletta al Quirinale (Pinotti ha 53 anni) non trova sponde a Palazzo Chigi. Dove anzi il criterio della non eccessiva esperienza è considerato quasi un valore aggiunto: meno esperienza hai, più segnerai una rottura con il passato, meno sarà la tua tentazione di diventare un contropotere rispetto al potere di Palazzo Chigi. Sul percorso della Pinotti esiste un campo minato legato all’esito dell’inchiesta partita dalle colonne del Fatto quotidiano (e ripresa in Parlamento dal Movimento 5 stelle) sulla storia del presunto uso improprio di un aereo di stato da parte del ministro della Difesa. Renzi ha detto che quando si dovrà scegliere il successore di Napolitano i parlamentari dovranno essere bravi a non farsi condizionare dalla timeline di Twitter. Il nome di Pinotti resta dunque ancora in campo (anche a costo di utilizzarlo per coprire un’altra candidatura) ma è difficile che in questi giorni il presidente del Consiglio, non ascoltando se stesso, non abbia dato una scrollata alla sua timeline.

 

Mario Draghi. In Parlamento la chiamano l’arma di fine mondo e come tutte le armi di fine mondo vive nella negazione della sua possibile venuta. La velina sul nome Mario Draghi arriva principalmente dagli ambienti di centrodestra, e in particolare da Forza Italia: è una carta difficile, quasi impossibile, da mettere sul tavolo per una serie di ragioni pratiche. Renzi ha detto che vuole un politico, e Draghi non è un politico. Il mandato di Draghi in Bce scade il 31 ottobre 2019, e a meno che il fronte tedesco all’interno della Banca centrale europea non diventi egemonico non esiste (salvo questioni personali) una sola ragione per cui Draghi possa essere interessato a tornare in Italia. La velina Draghi continua però a girare vorticosamente e gira per una ragione molto semplice. Gli scenari per il Quirinale vanno studiati tutti e considerando che questo Parlamento è stato quello che già una volta non è riuscito a eleggere un presidente della Repubblica diverso da quello precedente (non era mai capitato prima nella storia) non è da escludere che anche questa volta il fuoco incrociato dei veti politici elimini politicamente tutti i possibili successori di Re George. E a quel punto, anche Renzi sarebbe di fatto commissariato; e una soluzione alla Ciampi (per la gioia di tutti i nemici del presidente del Consiglio) rischierebbe di essere inevitabile. La primogenitura dell’ipotesi Draghi al Quirinale è di Silvio Berlusconi, che già nel gennaio 2013 suggerì che il capo della Bce sarebbe stato un perfetto successore di Napolitano (Draghi smentì). Ma anche durante le trattative per le nomine dei nuovi commissari europei, alcuni renziani trasferitisi a Bruxelles colsero nelle parole riservate del presidente della Bce un’apertura possibile all’ipotesi del Quirinale (ma non esistono altri riscontri). Le veline dunque esistono anche su questo nome. E a differenza degli altri candidati non arrivano solo dall’Italia ma anche dall’estero, e soprattutto (birichini) dalla Germania. Titolo a tutta pagina di tre giorni fa del settimanale Die Zeit: “Draghi si trasferisce a Roma?”. Chissà.

 

Un democristiano a caso. E’ la categoria più affascinante. E’ la carta della disperazione. E’ una tesi che circola anche a Palazzo Chigi e che risponde a un ragionamento lineare. Sulla carta impeccabile: nel caso in cui dovessimo essere nel panico più totale e dovessimo ritrovarci con un gruppo parlamentare che nel segreto dell’urna non permetterebbe neanche a Madre Teresa di Calcutta di superare il fuoco incrociato dei franchi tiratori la soluzione, per scontentare tutti e quindi non accontentare nessuno, sarebbe quella di puntare sulle riserve della Repubblica delle balene. Il ragionamento è sofisticato: “Siccome Napolitano è comunista e dopo un comunista non può che esserci un democristiano, tocca trovare un democristiano che non dispiaccia né al Pd, né a Ncd, né a Forza Italia, né ovviamente alla chiesa, e che possa essere un buon punto di mediazione fra tutti i più imprevedibili i fuochi incrociati”. In cima alla speciale lista dei democristiani a caso il nome che si trova più in sintonia con il governo è quello di Pier Ferdinando Casini (ma anche Pierluigi Castegnetti e Luigi Zanda, e vi giuriamo che non ci stiamo inventando nulla). A livello statistico, le possibilità di Casini di arrivare al Quirinale non sono molto diverse dalle possibilità di Stefano Fassina di vincere il Nobel per l’Economia o dalle possibilità di Corrado Passera di diventare presidente degli Stati Uniti. Con malizia però i renziani hanno fatto arrivare a Casini la voce che qualcuno a Palazzo Chigi punta su di lui come successore di Napolitano. La voce lascia il tempo che trova ma si sa (vedi alla voce Finocchiaro) che di questi tempi per tenere la maggioranza compatta non c’è nulla di meglio che far capire alle persone giuste che un domani chissà cosa potrebbe magicamente succedere nella corsa per il Quirinale.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.