Società civile, soliti nomi, mezze tacche sospese tra la boria personale e l’effetto tanica vuota. Inizia la noia

Il quirinabile perfetto, una (o uno, vabbé) che tutta la gente dica: chi?

Stefano Di Michele

Solo una sorpresa, chi?, può salvarci dalla pratica giornalistica tra le più noiose, il gioco del Quirinale. E il paese dalla solita pletora di nomi, ambizioni e muffe. Società civile, soliti nomi, mezze tacche sospese tra la boria personale e l’effetto tanica vuota. Inizia la noia.

Chi? Sarebbe bello domandare, perciò domandarselo: chi? Di solito, quando si comincia (per la verità, da qualche anno, neanche si finisce) a parlare di futuri inquilini del Quirinale, s’avvia la sagra del Solito Noto – che non meno tediosamente solito, né meno burocraticamente noto, diventa nel passaggio (una volta salvifico, adesso spesso tossico) dalla politica alle mirabili creature della sempre nominata (e il proposito quasi sempre si è mutato nell’atto pratico in sproposito) società civile: il più rigoglioso vivaio, stando agli ultimi anni, di mezze tacche sospese tra la boria personale e l’effetto tanica vuota una volta in azione – i sani, rispetto alla gran malattia della politica, che producono lo stesso effetto mediatico e concreto che la pazzia degli uomini faceva intravedere a Pascal: tutti così pazzi che il non essere pazzi equivale semplicemente a un’altra forma di pazzia. Forse persino più pericolosa, va a sapere. Ci fosse, magari ci fosse, un Mr Smith – così come una Lady o una Mrs Smith, si capisce – che invece che a Washington prenda la salita del Colle supremo. Appunto: chi? Con il più gran rispetto parlando, una bergogliana sorpresa, un presidente che arrivi dalla fine del mondo conosciuto ai sondaggi e alle cronache e alle telecamere, uno che si mostri e che dica “buonasera” e “bongiorno”, saggio e persino un po’ stupito di essere lì.

 

Qualche mese fa, appena all’inizio della primavera, se ne parlava con G., il direttore – essendo il verosimile, poi, quasi sempre meglio e persino più appropriato del vero: possiamo provare a immaginare, fuori dalle candidature più ovvie, un po’ di nomi (per gioco, per goldoniana celia) che hanno tutte le caratteristiche per succedere a Napolitano e finora mai presi in considerazione? Che magari hanno pratica e uso di società, senza per questo (auto)proclamarsi civili tra gli zulù partitici? Che hanno cara la Costituzione, come ogni cittadino dabbene dovrebbe, senza farne pubblico sventolio a ogni occasione, come donna di Picasso, come damina di Renoir, come se tutti avessero per le mani il ventaglio amoroso di Evaristo? Cerca cerca, un po’ di nomi furono messi insieme. In pratica, alla fine l’unico personaggio politico che emergeva era Roberta Pinotti, ministro della Difesa – solo perché, in pratica, nessuno ne aveva mai parlato prima. E poi – in tutto quello sfavillio di mostrine e divise e bordature dorate, tra generali e ammiragli e truppe schierate, sommergibili e bombardieri, quasi quasi alabarde e spingarde – aveva la faccia perfetta per l’incarico, il taglio svelto delle chiome bionde, gli occhiali scuri, il nero vestiario, un piglio che stava tra la Glenn Close vicepresidente (presidente Harrison Ford: già partiva avvantaggiata) degli Stati Uniti in “Air Force One” (persino il footing, con atletici carabinieri di scorta, cuffietta con musica e messa domenicale: c’è tutto l’occorrente) e una regale Helen Mirren fuori scena, ancora non consacrata alla globale grandezza cosmetica – mica un’Imelda Marcos come certe altre, che s’innalzano la chioma a effetto cofana, credendo di prenderne autorevolezza istituzionale.

 

Poi, da gioco iniziale che era, la candidatura della Pinotti ha cominciato per conto suo a prendere il volo (i malevoli giornali gliene hanno imputato anche uno di troppo, di volo: verso casa), e adesso, tra le donne che potrebbero andare al Quirinale (c’è sempre la necessaria premessa che pure un uomo deve fare: è giunto il momento di una donna al Quirinale, e che cazzo!) figura al primo posto – altro che Bonino, che vaga ormai per ogni possibile incarico istituzionale come il fantasma di Banco, il solito disdicevole andazzo tra volere e pigliare, o addirittura la Boldrini, brillantissimo lascito di strategia bersaniana in cupio dissolvi, o piuttosto la cara perfetta Finocchiaro, dannata dal carrello Ikea, come se fosse mai, il carrello e il pentolame sovrastante, il peccato biblico accovacciato alla sua porta. Ora, della Pinotti molto si parla, dopo l’iniziale sciocchino giochino fogliante – anche se ancora c’è chi, di fronte alla sua possibile ascesa al Quirinale, domanda: “Pinotti chi?”.

 

[**Video_box_2**]Ecco: chi? Sarebbe una bella sorpresa – il solo porsi questa domanda. Solitamente, le previsioni per il Quirinale sono tra le pratiche giornalistiche più noiose da smaltire, un filo sotto il probabile vincitore di Sanremo, un filo sopra la gara di biliardo trasmessa in tivù alle tre di notte. I nomi salgono, scendono, si stabilizzano. Appena – per un minimo di garbo – il presidente Napolitano avrà fatto sapere che saluta e se ne va, come le puntarelle nell’orto quando è stagione, ecco che le pagine dei quotidiani si riempiranno di nomi, fotine e freccine che vanno avanti e indietro, a nord e a sud, ferme come paracarri o veloci come sorci. La quasi perfetta metafora della condizione esistenziale dei concorrenti all’ambita carica (per carità, nessuno che voglia, stanno tutti al corazziere come il diabetico al bignè: certo non aspiro per me stesso, Domine non sum dignus, una donna va benissimo ma non io, ho altro da fare, ho altro da pensare, non è nel mio orizzonte, ecc. ecc.) la offrì Papa Giovanni, quando raccontò di come andarono le cose in conclave tra lui e il cardinale Siri: “Sembravamo come i fagioli nella pignatta, che vanno su e giù. Ora io, ora lui”. E siccome il fuoco è stato ormai acceso, e la pignatta ha cominciato a bollire, i legumi quirinalizi sono lì sotto il pelo dell’acqua che da giorni s’inabissano e il giorno appresso risalgono. Scuocendo – politicamente, oltre che mediaticamente – nella duratura bollitura. Altra perfetta metafora si trovava martedì scorso a pag. 3 del Corriere della Sera, dove una grande (nelle misure) e fenomenale (nella sostanza) foto – pareva di quelle che si aprono a soffietto per i turisti in vendita nelle edicole, così che insieme lo sguardo della frau di Stoccarda possa abbracciare il Circo Massimo e San Pietro – ritraeva sette uomini in scuro, men in black de Roma capoccia, dai cappottini prudentemente allacciati, che si avanzano nel buio e nella desolazione sui sampietrini umidi della capitale. Ecco, uno li vede e dice: “E questi, chi sono?”. Gente che esce da una funzione? Questurini in borghese? Summit di ragionieri? Nientemeno, trattasi dei centristi (così nella didascalia) che vanno al calar della sera da Renzi a Palazzo Chigi – mentre l’ampia prospettiva a cinque colonne del Corriere permette di abbracciare con l’occhio una distesa che da Tabacci si spinge fino a Lucio Romano. Sarebbe questa la perfetta immagine da candidati (nessuno di quelli in foto, per logica politica e per buon senso pratico, lo è) al Quirinale. Il gusto di poter chiedere alla fine: ma chi è, quello eletto?

 

I nomi, invece. Sempre gli stessi – addirittura gli stessi da più elezioni presidenziali, con stagionatura che ormai pure il periodo della commestibilità ha largamente superato. A parte D’Alema, che scalcia (per ora, e si teme a lungo, a vuoto) sotto il banco in presidenza dalla prof.ssa Gruber, è un lungo elenco di già visto, già sentito, già nominati. Persino le caricature che si vedono sui giornali sono sempre le stesse che si disegnano da decenni: così Veltroni fatto a bruco, Prodi a mortadella, Amato a sorcio, Franceschini ministro e scrittore (praticamente il nostro Camus), Grasso che sempre il presidente del Senato in lista per comodità va, ecc. ecc., mentre il buon Letta (lo zio Gianni, l’originale: come per le Clarks Desert Boot), secondo l’allarme già lanciato dal Fatto, che nella battaglia è così avanti che non solo si preoccupa di chi deve andare (l’ottimo Napolitano, sempre rappresentato in casa Padellaro a metà tra Rasputin e Bormann), ma anche già di chi sta per arrivare, appunto Letta, nientemeno neppure come presidente, ma addirittura come segretario generale del Quirinale – occhio che come niente il patto del Nazareno potrebbe prevedere pure l’incarico di capocorazziere per Delrio. Il solito groviglio, si sa, di quello che conosce quelli, di gente che ha da poter dire alla Consulta, di quelli che con gli industriali, i magistrati sempre, quello che gli intellettuali vogliono, quello che gli intellettuali non vogliono, quelli che conoscono i corridoi del Csm, quelli che hanno pratica di ogni anfratto dell’alta burocrazia, quelli che tutti visualizzano e da tutti sono visualizzati, quelli che da una vita bazzicano, da una vita sono evocati, da una vita (si sentono) bramati. Da terrazza, da apericena, da convegno, da commemorazione. Persino il bravo e accorto Chiamparino – uno che per pratica politica è antico come il vermouth, ma che di effetto pratico innovativo pare svelto e moderno come un sushi bar – ha fatto una sorta di autocandidatura da suicidio mediatico con lancio dal Colle (più che sul).

 

E’ che la corsa al Quirinale produce, tra cronisti e candidati (supposti) e kingmaker (pure quelli supposti) un po’ di effetto oasi nel deserto dopo un mese di marcia sotto il sole e acqua scarsa: si crede solo di vedere quello che si vorrebbe trovare. A volte è l’insolazione, a volte possono essere trovate geniali tipo le quirinarie grilline, con quella bella sfilza che andava da Dario Fo a Zagrebelsky, da Imposimato alla saggia Gabanelli, che altro aveva giustamente da fare, e si è visto – per ovviamente finire nel trionfo del Rodotà-tà-tà!, Rodotà-tà-tà! (va ancora molto forte nel sondaggio attuale del Fatto.it), così da mutare, nel nome e per conto dell’ill.ssima società civile tutta, vaffanculo compreso, oltre il benvolere e magari nell’imbarazzo del giurista, in una sorta di marcetta (tà-tà-tà) alla sagra patronale (con democratico assedio a Montecitorio). E’ Ignoto Presidenziale che invece andrebbe valorizzato – ormai. Il notaio da bordo ring. Il preside accorto e composto. L’autorevolissimo Primo Burocrate della Repubblica. Quello che né entusiasmi deve suscitare, né però vivere tra i rancori dei fuochi fatui della società civile autonominata accesi. Si dirà: e Napolitano, che a voi piace tanto? E certo che piace, Napolitano. Un po’ per merito della gente a cui dispiace – per tenere in conto qualcuno si deve pur tenere conto di quelli che lo avversano. Un po’ per l’effettivo gran sbrogliare di matasse dove capo e coda si annodavano in continuazione che ha dovuto, con pazienza e intelligenza, fare. Un po’ perché il mirabile discorso che ha pronunciato dopo la sua rielezione dovrebbe essere ristampato e impresso a memoria nelle pur disponibili meningi di parecchi disadattati al buon senso che frequentano Camera e Senato. Ma siccome un nuovo Napolitano certo non è possibile, perché poi le storie personali racchiudono anche epoche in dissolvimento, per degnamente onorare l’opera sua meglio uno che di Napolitano sia l’esatto opposto (un simil Napolitano, senza le qualità di Napolitano, potrebbe finire col personificare esattamente l’aforisma del meraviglioso Stanislaw Lec, quello che diceva: “In principio era il Verbo – alla fine le chiacchiere”).

 

[**Video_box_2**]Servirebbe un po’ di stupore iniziale (ma davvero?, chi è che hanno eletto?, ma tu sai chi è?), per non doversi poi stupire troppo in seguito. Come se fosse il sovrintendente capo al Grande Catasto che confusamente ammucchia le mille mappe d’Italia. Il garante di una Gigantesca Authority (lasciando da parte, per carità, quelle di mezza taglia). Un Silenziario repubblicano, addetto a mantenere il silenzio e l’ordine delle cose della Repubblica – come quei funzionari imperiali che precedevano il passaggio dell’imperatore bizantino, verga aurea in mano e gratificazione di rango senatoriale. Un presidente che appartenga alla carica, piuttosto che la carica a lui. Uno scevro magari da grande pathos politico, e del resto politici che ne abbiano non ne girano troppi, ma soprattutto senza il doping del carisma della società civile – pure ancora a gran voce invocato sui vocianti siti, col fantasma di un Pinochet all’opera che sempre dorme a fianco – quello che fa apparecchiare certe candidature con luminarie e rosari come santi da processione, palle con ogni possibile “anti” come sull’albero di Natale, ferventi cortei accodati e gran senso di sé. Disseminati un po’ ovunque, questi rappresentanti della società civile – alla Rai, nei passati governi, in Parlamento, nei talk show, in aziende varie; da ovunque, ben poche notizie sono giunte. Ci sono, a volerli cercare, fior di possibili candidati civili senza timbrature via web o accreditamenti streaming o litanie consolatorie. L’anno scorso uscì una commedia intitolata “Benvenuto presidente” – nel Parlamento in stallo, per scherzo e per noia i grandi elettori votano “Garibaldi Giuseppe”, e un “Garibaldi Peppino”, bibliotecario precario (interpretato da Claudio Bisio), si scopre avere tutti i requisiti per occupare la carica. Fa un po’ “bellezza delle gente comune”, effetto “questo è uno di noi, uno del popolo”, non c’è dubbio, un po’ “il signor Bisio va a Roma”, ma ecco: un signor “Peppino Garibaldi”, con fantasia e azzardo si può sempre trovare. Che infine, un presidente in mano ai partiti, pure un po’ sgarrupati come gli attuali, non è certo messo peggio di un presidente in mano a manipoli di onanisti internettiani che ci danno sotto di pancia e di rutto, a coro di ogni indignazione impossibile da trattenere.

 

Un signor presidente di garbo e tatto e, naturalmente, buona determinazione. Uno che appunto faccia dire, alla notizia dell’elezione: “Chi?”, non avvistato né da Floris né da Giannini. Magari ne potrebbe pure venire del buono, visto mai. Uno che sappia gestire con pazienza, piuttosto che ammaestrare con veemenza. Basta che conosca l’essenziale, per quanto l’essenziale richiesto profonda conoscenza richieda – e poi in maniera chiara ed essenziale lo sappia esporre. Come succedeva, pare, al presidente americano Coolidge, detto “Cal il silenzioso” a motivo della grande parsimonia vocale. Pure con la consorte, figurarsi col resto della nazione. Si racconta di quando, una domenica mattina, tornò alla Casa Bianca dalla messa. “Di che ha parlato oggi il prete?”, gli chiese la moglie, curiosa. “Del peccato”, la laconica concessione. E la signora, insistente: “Be’, e che ha detto del peccato?”. Lui (appunto) chiaro ed essenziale: “Era contrario”. Tutto lì. Ma c’era proprio tutto.