Foto di Vasilij Grigor'evič Perov (CC) 

una fogliata di libri

Noi moderni nel sottosuolo dostoevskijano

Michele Silenzi

Lo scrittore russo avverte con assoluta chiarezza la potenza dirompente della scienza intesa come organizzazione razionale del mondo

Siamo forse diventati, noi uomini moderni, ciò che più disprezzava il dostoevskijano uomo del sottosuolo? La domanda, messa così, potrebbe suonare pretenziosa ma vale sempre la pena tornare a quel breve stranissimo libro di svolta nel percorso del colosso russo, quello scritto che assomiglia in tutto e per tutto a una confessione e che ha così poco del romanzo. Eppure, lì, Dostoevskij sembra concentrare in poco più di cento pagine le confessioni fluviali e le vicende trasognate e brucianti di cui saranno protagonisti, ma essenzialmente vittime, tutti i personaggi dei suoi romanzi più grandi (non solo in termini di foliazione).

E’ qui che lo scrittore, in un periodo tra i più difficili di una difficilissima vita, si pone senza l’intermediazione d’altri personaggi direttamente di fronte alla potenza distruttiva che sente attraversare la propria epoca. Una forza che potremmo chiamare nichilismo, come hanno fatto in tanti, se questa parola non avesse perso del tutto ormai il suo senso divenendo un lemma da sociologismi pigri e fané.

Allora diciamo che Dostoevskij avverte con assoluta chiarezza la potenza dirompente del moderno, ovvero della scienza intesa come organizzazione razionale del mondo in cui tutto può e deve essere conteggiato e capito nella sua concretezza, e messo a sistema. L’orrore di Dostoevskij è per il positivismo ottocentesco (che oggi ritroviamo presentissimo in tanto grossolano scientismo che innerva di cieca presunzione il nostro tempo) in cui la libertà appare un fattore incidentale, se non considerata come puro intrattenimento. 

L’uomo della superficie, oggetto del disprezzo dell’uomo del sottosuolo, è quello allergico all’impossibile, ossia allo stupore del miracolo costituito per Dostoevskij dalla stessa presenza metastorica di Cristo. L’uomo della superficie è quello del sapere scientifico-pratico dozzinale, quello che due più due fa per forza quattro, dominato dal senso comune, che attraverso di esso trionfa e in cui, nel medesimo istante, affoga. E’ quello per cui c’è un ordine esatto delle cose in cui la verità si manifesta con sicura evidenza, purché la si cerchi con metodo esatto. E’ l’uomo in cui, pur nell’agitazione costante, nell’attivismo grossolano, non può non affermarsi la noia dello Spirito. Contro questo, in una lettera, Dostoevskij scrive “Se qualcuno mi provasse che Cristo è fuori della verità, e se la verità fosse veramente fuori di Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”.

Per l’uomo del sottosuolo la riduzione del mondo al suo dispiegamento razionale è il massimo orrore. Eppure, nel furore dostoevskijano intuiamo una tremenda speranza. L’uomo della superficie, infatti, affogato nella propria pretesa certezza del mondo piomberà prima o poi, per sentieri imperscrutabili eppure necessari, a una qualche disperazione da cui potrà risorgere solo alzando gli occhi verso ciò che pensa come impossibile, ossia, per Dostoevskij, l’amore cristiano. Infatti, parlando dell’uomo della propria epoca egli scrive: “Provate a seppellirlo sotto tutti i tesori terrestri, affondatelo nella felicità fino al collo” allora sarà capace di commettere una mascalzonata, di rimettere tutto in gioco, solo ed esclusivamente per non sentirsi come “un tasto del pianoforte” ossia come un oggetto inerte che può essere mosso, che può essere “suonato” da Altro o da altri e che è quindi del tutto privo di libero arbitrio. 

Per rivoltarsi contro questa idea, l’uomo sarebbe allora pronto a rinnegare persino come il mondo gli appare secondo la sua stessa logica, per dimostrarsi libero sarebbe pronto ad aderire a qualsiasi fantasia. Per dimostrarsi libero sarebbe pronto, lo si vedrà nei “Demoni”, ed ecco il paradosso definitivo di un’epoca certa di sé, persino a uccidersi. “Soltanto ciò che porta prosperità è vantaggioso per l’uomo? Non potrebbe darsi che all’uomo non piaccia soltanto la prosperità? Non potrebbe darsi che gli piaccia altrettanto la sofferenza?”.

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