Quodlibet ha ristampato “Parigi”, un libretto di Bruno Barilli curato da Antonio Castronuovo (grafica di Enrico Cicchetti)

Una fogliata di libri

Ah Parigi, quanto manca quella “atmosfera grassa di cotechino” 

Matteo Marchesini

Bruno Barilli offre il ritratto di una città immersa nell'atmosfera effervescente degli anni Venti tra gli artisti di Montparnasse, il Moulin Rouge, L’Opéra e il Museo Grévin

Le opere d’arte sono oggetti del mondo come gli altri. Quindi, per descriverle nel modo più esatto e insieme inaspettato – cioè da critici – bisogna essere degli scrittori. Ma questa vecchia verità prende un senso particolare quando si tratta di dar conto a parole non di un libro, bensì di una pittura o di una musica. Nel Novecento italiano, il critico d’arte per eccellenza è stato Roberto Longhi, i cui virtuosismi formali, in apparenza estetizzanti, hanno un valore rigorosamente conoscitivo. Non si può dire lo stesso per un altro stilista sontuoso, Bruno Barilli, a volte considerato l’omologo musicale di Longhi. In lui, infatti, il tema critico sembra il pretesto per innescare una serie di pirotecniche invenzioni. Giacomo Debenedetti osservò che la sua prosa è tutta un climax: elude le zone tiepide, il discorso argomentato. Lo stile barilliano s’infiamma al contatto con certi eventi o apparizioni, e ci offre una sorta di rimbaudismo giornalistico, un contenitore d’immagini bizzarre che ricorda la poesia di Govoni. Dove non raggiunge un’illuminazione genuina, commenta Debenedetti, lo scrittore la sostituisce con la retorica: ma allora il gioco sublime si riduce a un giocattolo di poco prezzo. È perciò con ammirazione perplessa che leggiamo oggi “Parigi”, un libretto di Barilli elegantemente curato per Quodlibet da Antonio Castronuovo.

La prima edizione risale agli anni ’30, ma non si conosce la data precisa: sintomo di una vicenda artistica in cui regnano ovunque precarietà e leggenda. Giovane musicista belle époque cresciuto nella Parma verdiana, Barilli compose due opere di scarso successo, sposò una nobile serba, e scoprì per caso la sua capacità di trasformare qualsiasi occasione in elzeviro. Scomparso il mondo nel quale si era formato, divenne poi una specie di dandy-bohémien in sfacelo, il cui ambiente naturale erano le camere ammobiliate da studente dostoevskiano o i caffè da racconto di Arturo Loria. Lì, col bicchiere davanti, estraeva una forbicina per tagliarsi i peli; ma anche, suggerisce il curatore, per tagliare e montare i propri pezzi. Perché Barilli rimase un tipico autore di saggi, più che di libri, incline a trasferire disinvoltamente i suoi capoversi da un volume all’altro. In “Parigi” la musica accompagna un ritratto della città a brevi capitoli: il Moulin Rouge, gli artisti di Montparnasse, L’Opéra, il Museo Grévin, i concerti di acido jazz, i profili di pittori e di tenori. Tutto è avvolto in un delirio torpido, in un’allucinazione da lanterna magica. Sagome umane compaiono o svaniscono come spettri, e umidità stagnanti spengono dopo un attimo i fuochi artificiali con cui il saggista tramuta le realtà più quotidiane in fenomeni esotici, étonnants. Del mito parigino, zoliano e liberty, Barilli fa modernariato, rigatteria poetica, spettacolo d’addio grottesco, onirico e fauve. I teatri sono qui antri un po’ tribunalizi un po’ antidiluviani, e le orchestre “un accampamento di scarabei in cravatta bianca”. La “vera” Parigi è tramontata con la Grande guerra: il suo bistro colante, il verminaio ebbro del Moulin Rouge fanno posto ai balli igienici, e a una metropoli razionale dove ormai “Ti permettono appena una scrittura che dice castamente delle cose immorali”. Però la turbinosa routine della Ville Lumière non muore mai del tutto; sparisce invece la civiltà del melodramma, di cui l’autore rimpiange l’“atmosfera grassa di cotechino”. “Le giornate di Barilli sono un seguito di risvegli postumi”, ha detto Raffaele Carrieri. Ma tra i tanti gratuiti coriandoli da fine festa, grazie al suo gusto decadente, l’elzevirista lascia cadere qua e là delle perle critiche da conservare. “Materia cerebrale che cola da un’orribile ferita”, scrive ad esempio su Joyce: e non ci pare di avere mai letto una definizione più esatta del grande irlandese.
 

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