grafica di Enrico Cicchetti 

Quando la letteratura permette di non soccombere al caos

Marco Archetti

“La verità delle menzogne” è pieno dell’acume con cui un grande scrittore sa leggere i libri degli altri 

Molde, contea di Møre om Romsdal. Norvegia, anno 2005. Interno giorno – giorno sempre. Seduto al bar di un albergo a rispondere alle domande della Radio Nazionale norvegese c’è Raul Rivero. Poeta cubano in piena castroenterite (copyright Guillermo Cabrera Infante) da poco stabilitosi a Madrid, fondatore dell’agenzia Prensa latina e Premio mondiale Unesco per la libertà di stampa, incarcerato fino ad aprile dell’anno precedente poi invitato ad andarsene ma assurdamente – e a lungo – trattenuto nonostante regolare domanda di espatrio, sospira ancora di sollievo e di gratitudine verso la Spagna, terra promessa di promesse, tutte mantenute. “Sto in una casa troppo rumorosa per scrivere e troppo costosa per starmene tranquillo. Ma va benone, star lontano dal Partito comunista cubano, la più grande impostura che esiste, è già una fortuna”. Racconta dell’arresto e della galera. “Due anni: vi rendete conto di tutto il tempo che, senza alcun diritto, mi hanno fatto perdere? Ci pensavo di continuo. Mi dicevo: e se muoio? Riuscirò a scrivere e a raccontare tutto questo?”. Pausa. “Il tempo…” riprende. “Qualche sera fa ero a cena con Mario Vargas Llosa. Grande scrittore. Un uomo molto diverso da me. Persona cristallina. A un certo punto mi fa: sono ossessionato dal tempo che mi resta. Basterà?”.

    
Raul Rivero è morto nel 2021. Mario Vargas Llosa, 87enne, da quel 2005 di tempo ne ha avuto ancora, ed è arrivato a dire basta prima che i titoli di coda lo dicessero al posto suo. Certo non è semplice, perché a meno di appartenere ai Bartleby di Enrique Vila-Matas (gruppo immaginario di scrittori che si sono negati alla scrittura), dire basta, per chi scrive, è come dire: sto morendo. Chissà se, al momento della riconsegna delle chiavi, coverà, Mario Vargas Llosa, qualche rimpianto. Chissà se ha scritto tutto quello che voleva scrivere. E chissà a cosa pensa, uno scrittore, nei pressi della fine, e se le pagine (tutte, comprese quelle buttate) si ripresentano per fargli la festa o il funerale. In ogni caso, il punto è questo: il nostro uomo di Arequipa e di tutto il mondo – splendido il passaggio del suo discorso di accettazione del Nobel in cui parla delle proprie radici come di “tutte le radici” (il Perù “de todos los sangres” di José María Arguedas) –, ha detto, in un post scriptum al suo più recente romanzo, che il prossimo suo lavoro sarà un saggio su Sartre, e che sarà l’ultimo, e che si augura di avere il tempo per finirlo.

 

Qualche anno fa lamentava che la sua produzione saggistica fosse passata in secondo piano rispetto a quella narrativa, così, per l’occasione, dato l’affetto smisurato, la frequentazione trentennale, la gratitudine immisurabile, pare doveroso consigliarla: è ricca, in parte fuori catalogo – ma sarà bello rincorrerla guadando siti oscuri di venditori con nickname da hippie con l’ecoansia – e racconta la cosa più importante. La passione. Mario Vargas Llosa è un uomo che ha amato la letteratura. L’ha amata perché gli ha permesso di sopportare la vita e di non soccombere al caos. “La verità delle menzogne” è il suo testo più generoso, pieno dell’acume con cui un grande scrittore sa leggere i libri degli altri. Si cominci dal sorprendente capitolo “Elogio del brutto romanzo”, in cui si parla de “La valle dell’Eden” di John Steinbeck – una storia immortale, dice Vargas Llosa: cattiva costruzione, folclorismo, melodramma senza freni, superficialità di idee e visione manichea, i suoi migliori difetti.
 

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