elaborazione grafica Enrico Cicchetti

Una Fogliata di libri

Nessuno più di uno scrittore è tanto libero e dunque in pericolo

Marco Archetti

Scrivere non vuol dire essere supereroi, ma farsi un giretto nella realtà senza preconcetti. Essere, insomma, un individuo

Che farsene di un bel romanzo? Niente, se per bello si intende ciò che ormai spesso si intende: opera di squisito cesello, di sapiente ghirigoro. Un arabesco perfettamente scolastico, perfettamente intelligente e perfettamente morto, impeccabile ed esangue, astratto e mirabile – roba, insomma, per vecchi orologiai, per collezionisti di carabattole e vecchiume; tutta materia inerte.

 

Che farsene di un bel romanzo? Tutto, se per bello si intende ciò che, affrancati dalla pigrizia che è il peggior peccato per uno scrittore ancor prima che per un lettore, dovremmo intendere: opera di un’individualità cocente, che non si avventura su una strada spianata; opera di imprevedibile e sventata audacia, che rifiuta combinazioni già combinate, reazioni già reagite e sostanza fasulla, imbizzarrita sotto le redini di qualsiasi cosa, buonsenso compreso, e che batta il marciapiede dell’imprevedibile, capace di trascinarci e di svelarci quanto sia bello ciò che mai avremmo osato immaginare bello, capace di disarcionare il nostro punto di vista.

 

Non si tratta di essere supereroi, si tratta semplicemente di non avere liste della spesa preordinate, di farsi un giretto nella realtà e di elaborarne una visione finalmente individuale: essere questo tipo di scrittore significa essere, nella sua massima espressione, un individuo. Perché nessuno più di uno scrittore è tanto libero. E pertanto, nessuno più di uno scrittore con la “s” maiuscola si trova tanto in pericolo, nella condizione meno auspicabile. Perché dai, diciamocelo chiaro e tondo: chi, davvero sano di mente, desidererebbe tutta questa devastante libertà? Chi, davvero sano di mente, accetterebbe questo patto senza deroghe? Chi, davvero sano di mente, è disposto ad accettare le conseguenze non solo di sé, ma di un’opera, cioè il parto più esplosivo di tutto ciò che, di solito, per quieto vivere, uno tiene costantemente atrofizzato?

 

Essere uno scrittore: forse solo questo vale il viaggio, solo questo vale il treno sudicio dei giorni mortali, vale l’immersione nelle profondità. Essere uno scrittore e non desiderare altro che questa conoscenza drammatica, questa esplorazione abissale, per arrivare a rendersi conto che, però, forse, non bisognerebbe scrivere. Essere uno scrittore che abiura l’opera che non ha mai composto perché la partita è già persa, perché ciò che si dovrebbe afferrare è sfuggito, perché ciò che conta è incontabile. Essere scrittore solo per conoscere cosa non si dovrebbe aver mai scritto, e rispondersi: non avrei dovuto scrivere niente.

 

Perché scrivo? Chi se lo chiede, non sa cosa dire, e tuttavia non si pacifica, non passa ad altro, non può, non lo accetta. Perché scrivo? Perché mi ritrovo dentro questa smania ridicola, innaturale, questa malattia che non mi dà tregua? Essere uno scrittore per augurarsi di non esserlo, e poi però esserlo nonostante tutto, nonostante se stessi, annusando la fogna del fallimento, la vergogna insanabile di non aver resistito a se stessi, e voler bruciare ogni cosa, ogni singolo foglio, come Kafka.

 

Kurt Wolff, in “Memorie di un editore”, ci racconta: “Nell’accomiatarci, in quel giorno di giugno del 1912 Kafka disse una frase che non ho mai sentito da nessun’altro autore, e che è rimasta, nella mia mente, impressa insieme alla sua unicità. Mi disse: le sarò molto più grato per la restituzione dei miei manoscritti che per la loro pubblicazione”.
 

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