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uffa!

Leggere Massimo Gatta per capire che non c'è soluzione al disordine dei libri

Giampiero Mughini

Bisogna arrendersi al caos. In L’insolenza e l’audacia. Sul disordine dei nostri libri, Gatta si diverte a mettere il dito nelle piaghe di quanti di noi hanno una biblioteca personale superiore ai diecimila libri. E non è (solo) un problema di spazio

Lo sapevo, dannazione, che ad aver letto il recente libro di quel gran bibliofilo che è il maceratese Massimo Gatta (L’insolenza e l’audacia. Sul disordine dei nostri libri, Perugia, Graphe.it edizioni), si sarebbe solo e soltanto aggravato il maggior cruccio della mia vita, ossia il progressivo disordine della mia biblioteca personale. Nel momento in cui passo ore a cercare libri indispensabili al lavoro che sto facendo, a parare questo “disordine” speravo che leggere un libro di cui lo sapevo quanto fosse attrezzato nella materia me ne sarebbe venuto un qualche conforto. Macché, Massimo si diverte a mettere il dito nelle piaghe di quanti di noi hanno una biblioteca personale superiore ai diecimila libri, duetta a meraviglia con il gruzzoletto dei bibliofili suoi complici – da Luigi Mascheroni ad Ambrogio Borsani, da Giuseppe Marcenaro a Oliviero Diliberto – per poi concludere che la cosa migliore è tenerla in disordine la propria biblioteca, non c’è altra via possibile.

E difatti stando alla prima impressione di lettore del libro di Gatta, io non dovrei fare altro che comprare 20 o 30 libri tra i tantissimi dedicati alla malattia dell’aver libri che lui perlustra magistralmente. Solo che quei libri andrebbero destinati al comparto della mia biblioteca riservata ai libri di bibliofilia, ossia alle tre mensole della splendida libreria in legno Thonet che avevo comprato poco meno di mezzo secolo fa all’Emporio floreale di Mapi Maino. Ebbene su quelle tre mensole i miei libri dedicati alla bibliofilia (un paio di centinaia) sono accatastati in modo osceno, ne cercassi uno ci metterei un’ora a trovarlo. Mascheroni nella sua introduzione al libro scrive che è tutta una questione di spazio, se hai spazio riesci a metterla in ordine la tua biblioteca. Errore. Quando vent’anni fa ho comprato la casa in cui abito, lo sapevo benissimo che la primissima cosa ne doveva essere lo spazio in cui ordinare i miei libri. Ben sette stanze erano state predestinate a questo, ciascuna ben organizzata a custodire la letteratura francese in prima edizione, i libri di fotografia, i libri sul design, gli albi dei maggiori raccontatori a fumetti, i libri di Andy Warhol in edizione originale, la collezione pressoché completa del Calendario Pirelli, i libri di saggistica sulla storia politico-culturale dell’Italia del Novecento (occupano l’intera stanza in cui batto al computer) e così via. Era un reticolato di mensole di cui ero orgoglioso. Ebbene quell’impianto è esploso, quelle mensole sono sature, quella dedicata a Warhol come quelle dedicate alla pornografia (dove ci sono libri splendidi) come quella dedicata ai libri di Guido Crepax: il suo vertiginoso Histoire d’O curato da Franco Maria Ricci se ne sta per terra appoggiato al piede di un tavolo colmo di libri. Come tutti gli altri settori della mia biblioteca avevo ordinato alfabeticamente la saggistica sulla storia italiana del Novecento. Ebbene la mensola dove sono allineati gli autori il cui nome inizia con la “C” è esplosa da quanto i miei amici Alfio Caruso e Aldo Cazzullo eruttano libri uno dopo l’altro. Che fare? Dannazione, non è che uno dei due avrebbe potuto scrivere con uno pseudonimo?

Quanto al mettere in ordine i libri c’è poi un problema se sono libri in formato grande e in più massicci per numero di pagine. Dove metterli, trovare per loro uno spazio specifico? Gatta racconta di Karl Lagerfeld, il sovrano della moda che è stato uno dei più grandi collezionisti del Novecento (collezionava di tutto). Lui aveva 60 mila volumi di cui la gran parte in formato grande (cataloghi d’arte, design e fotografia) che teneva disposti orizzontalmente a formare delle vere e proprie muraglie di carta. Io che a paragone di Lagerfeld sono collezionisticamente un misirizzi, di quei cataloghi ne avrò attorno ai 400. Quelli dedicati alla fotografia li ho deposti su una libreria in ferro apposita. E gli altri? E’ da tempo che va girovagando fra le pile di volumi che rendono invivibile la stanza in cui sto scrivendo il New York 1962-1964, un immane libro/catalogo edito da Skira e curato da Germano Celant. Dove diavolo lo metto? In quell’angolino ai piedi di una delle mie librerie dove se ne stanno per terra in piedi maestose monografie su Gio Ponti, il libro di conturbanti fotografie di Bettina Rheims edito da Taschen, un libro da perderci la vista edito da De Luca con 50 immagini di architetture novecentesche firmate da Luigi Moretti, il grande architetto che per il fatto di essere rimasto fascista fino all’ultimo una volta viene ricordato e cento volte no? No, lì non c’è spazio neppure per una rivista esile esile.

E poi in tema di messa in ordine dei propri libri, ci sono i casi più drammatici, dove non è questione di spazio e bensì del fatto che mai più avrò i soldi di che comprare certi libri che pure desidero tanto. Deve essere stato quindici anni fa che il libraio torinese Giorgio Maffei (lo ricordo qui con commozione) mi educò alla conoscenza e dunque all’acquisto dei libri di Ed Ruscha, il pittore americano che passa come il padre del moderno libro d’artista. Tanto mi ammaliavano i suoi libri che incaricai Roberto Mora di apprestarmi un contenitore originale in cui riporli. Roberto lo fece in ferro, bellissimo. Dove, uno più geniale dell’altro, quella dozzina di librini di Ruscha andarono via via annidandosi. Eccezion fatta del primo e di gran lunga il più importante, il Twentysix Gasoline Stations di cui nel 1963 Ruscha tirò una prima edizione di 400 copie che i suoi amici compravano al prezzo di 3 o 4 dollari l’una. Mai una volta ho visto quel libro offerto in vendita. Me lo offrissero adesso, quando per ognuna di quelle copie ci vorrebbero 25 o forse 30 mila euro, l’unica soluzione per poterlo comprare sarebbe vendere mia sorella ai beduini. Solo che io non ho sorelle.

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