(foto LaPresse) 

Uffa

Onore ai librai, che ti guardano in faccia mentre ti aprono un mondo

Giampiero Mughini

"Coloro che vendono i libri mettono tempo tra noi e la morte, facendolo con passione"Il senso di colpa quando si compra con un clic 

Amazon.it, che in fatto di libri conosce le mie passioni meglio della donna con cui vivo da trent’anni, mi manda via mail la raccomandazione di comprare l’ultimo romanzo di Jean Echenoz, uno scrittore francese che adoro e di cui ho letto quasi tutti i libri. Ci metto il tempo di un paio di clic a ordinare Vie de Gérard Fulmar, e già pregusto la delizia di leggere Echenoz, uno che in Italia non mi pare abbia avuto il risalto che merita, ossia quello di essere uno dei due o tre più grandi scrittori francesi contemporanei. Detto questo, sarei un bugiardo se non ammettessi che in questi casi – quando compro un libro a forza di clic – provo un senso di colpa verso una categoria che è stata talmente decisiva nella mia vita, la categoria dei librai, quelli che ti guardano in faccia mentre ti vendono dei libri. E tanto più che era stato proprio un libraio della Libreria Francese di via Ripetta a Roma quello che una quindicina d’anni fa mi aveva consigliato di leggere Echenoz, uno di cui all’epoca non sapevo nulla di nulla. Sì, lo sento come un complesso di colpa il fatto che da alcuni anni il mio tempo si è fatto talmente serrato da rendermi difficile l’entrare in una libreria, frugare e ordinare il libro desiderato se non c’è. Il cerimoniale che per cinquanta o sessant’anni era stato il più importante della mia vita, prima a Catania (dove sono nato), poi a Parigi (dove ho vissuto un paio d’anni) e infine a Roma, dove mi sono trasferito nel gennaio 1970. A differenza di molti siciliani che si portano appresso l’aroma della Sicilia ovunque vadano e ovunque si trovino, io ho relativamente pochi ricordi della mia adolescenza e della mia giovinezza siciliane. Su tutti, e di gran lunga il ricordo della libreria La Cultura a Piazza Umberto, la libreria condotta da Ciccio D. e Carmelo Volpe, due amici di cui è per me straziante che non ci siano più. Li avevo conosciuti uno che era commesso in una libreria, uno che era commesso in un’altra. Poi si erano incontrati una volta che io ero andato a giocare a tennis-tavolo contro Carmelo e avevo detto a Ciccio D. di raggiungerci per poi andare tutti e tre a mangiare una pizza. Loro due fecero comunella e impiantarono una libreria di cui ognuno era socio al 50 per cento. Quella libreria era il luogo sacro della mia generazione, una buona parte della quale mi reputa oggi “un rinnegato”.

 

 

Di Carmelo ho un ricordo come intagliato nella pietra, di quando lui era ancora commesso di una libreria catanese. Avrò avuto 23 o 24 anni, lui ne aveva un paio in più. Entrai nella sua libreria di via Etnea e gli chiesi un librino che cercavo disperatamente. Era una plaquette di poche pagine edita da Feltrinelli nel 1957 e impaginata da Albe Steiner. Col titolo La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi ospitava la memorabile conferenza che il filosofo ungherese György Lukács aveva tenuto il 28 giugno 1956 all’Accademia del Partito comunista ungherese a Budapest, una conferenza che fungeva da antefatto dell’insurrezione anticomunista di pochi mesi dopo. Lukács era stato per oltre vent’anni il più sontuoso fra gli adepti intellettuali dello stalinismo. Il suo La distruzione della ragione, un libro portentoso e atroce, lo avevamo letto tutti a voce alta. Con quella conferenza del 1956 Lukács individuava per la prima volta i sintomi orrifici del comunismo reale, e difatti dopo che i carri armati sovietici ripristinarono quel paradiso in terra lui se ne fuggì in Germania. Trovare una tale plaquette a Catania, dove in media i libri arrivavano venti giorni dopo che nelle librerie romane e milanesi, era un azzardo. Confesso che non nutrivo grandi speranze quando chiesi a Carmelo se ce l’avesse. Lui non mi rispose, rimase un attimo come a pensarci su, afferrò la scala che gli stava di fianco, la poggiò sugli scaffali della libreria sino a toccare lo scaffale lassù in cima, si arrampicò fino a quell’ultimo scaffale, frugò tra i libri e ne scansò via alcuni finché la favolosa plaquette non apparve nelle sue mani. Costava 200 lire.

 

E a proposito di quel che sono stati i librai nella storia della cultura occidentale, è toccante quel che ne ha scritto da par suo Massimo Gatta sull’ultimo numero della “Biblioteca di via Senato” dove parte da Port’Alba, la Charing Cross napoletana, la via dove Gaetano Colonnese aveva il suo tempio, e sembra ieri e invece Gaetano è morto da dieci anni: era il libraio il più puntuale a pagarmi le 10-15 copie di Giovane critica che gli mandavo nei Sessanta. A illustrare il testo di Gatta ci sono le copertine di alcuni libri mitologici per noi che amiamo libri e librai, Le avventure di un libraio del fiorentino Giuseppe Orioli (quello che pubblicò per primo al mondo L’amante di Lady Chatterley), le Memorie di un libraio di Cesare Branduani, Il diavolo nella mia libreria di Alfredo Panzini, la plaquette A cosa servono i librai che Gatta aveva pubblicato nel decennale della morte di Gaetano Colonnese. A che servono i librai? Gatta risponde così: “I librai servono alla vita perché fluisca meglio, come un sangue ossigenato, ricco di vita, di linfa. I librai servono alle donne e agli uomini che attendono, pazienti, che giunga un catalogo, ancora l’ultimo di una lunga serie, ancora uno per sognare un sogno a poco prezzo. Servono in fondo a questo, i librai che vendono libri, a mettere tempo tra noi e la morte, e a farlo con passione”. E a leggere le parole di Gatta mi vengono innanzi agli occhi librai e librerie di un tempo della mia vita che passavo in buona parte lì dentro, la libreria Colonnese a Napoli, la libreria Feltrinelli di via del Babuino a Roma dove officiava l’indimenticabile Carlo Conticelli, la libreria Palmaverde a Bologna dove Roberto Roversi si vergognava a chiederti un prezzo che non fosse il più basso possibile, la libreria parigina “À La Une” dove ancora a mezzanotte era fitto fitto il dialogo tra clienti accortissimi nelle loro scelte e commessi che sapevano il quando e il come di tutti i libri mai editi.

 

Se poi dovessi indicare la libreria la più bella nella quale io sia mai entrato in vita mia, è la libreria parigina “Un Regard Moderne”, al numero 9 di rue Gît-le-Coeur, giusto di fronte all’Hotel frequentato negli anni Sessanta dai beatnik americani. Era relativamente piccola ma aveva la fisionomia di una cattedrale o forse di una trincea dietro cui si appostavano quelli che amano i libri col venderli o col comprarli. Due stanze accollate l’una all’altra dove i libri erano ammassati all’inverosimile, pile e pile una sull’altra tanto che faticavi a passare. Libri mai visti di cui ti chiedevi com’è che fino a quel momento non li avevi posseduti e letti, libri pubblicati in poche copie da editori indipendenti, libri di cui ne compravo per 500-600 euro a botta, ed era la prima avventura di ogni mio soggiorno parigino in questi ultimi vent’anni. Adesso è tanto che non vado a Parigi, dove la buona parte delle librerie in cui passavo delle ore hanno chiuso. Mi si spezza il cuore al pensiero di precipitarmi a rue Gît-le-Coeur e non trovarci più Jacques Noël, il mago che faceva da sovrano di quei tesori e che è morto il 3 ottobre del 2016.

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