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Buoni criteri per vincere la sfida di tenere in ordine la propria biblioteca

Giampiero Mughini

Le dritte di Roberto Calasso e quelle pile verticali sempre più alte

Il Come ordinare una biblioteca di Roberto Calasso lo avevo prenotato su Amazon, una quindicina di giorni prima che uscisse. Amazon, termine di cui Calasso ricorda che ancora dieci anni fa non esisteva, mi ha mandato una mail alle 15.46 del 29 maggio dicendomi che il libro mi era stato “inviato tramite la cassetta delle lettere”. Sono sceso giù e ho raccattato il libro, di cui ho preso a deliziarmi senza mai smettere fino all’ultima delle sue 127 pagine.

 

Come ordinare una biblioteca, un tema che Calasso reputa “altamente metafisico”, ossia di quelli essenziali, a loro modo gravi, irrinunciabili nel definire la propria identità. Vado subito al sodo. Adesso che l’ho letto, dove lo ripongo il libro di Calasso tenendo conto che la mia è una biblioteca piuttosto ricca e complessa? Ho tre possibilità. Lo metto nella stanza centrale della biblioteca, dove sono allineati in ordine alfabetico gli autori che hanno scritto della politica e della cultura italiana a partire da fine Ottocento a oggi? Oppure lo metto nella (piccola) libreria dove sono allineati sempre in ordine alfabetico libri italiani del secondo Dopoguerra in prima edizione e dove già tengo un paio di libri di Calasso? Oppure lo metto in uno dei tre ripiani di una libreria in legno Thonet di fine Ottocento dove ho libri e librini che attengono all’editoria, al collezionismo dei libri, ai librai, alle librerie storiche eccetera? Se non è un tema metafisico questo.

 

Penso che sceglierò la prima ipotesi, e dunque il Come ordinare una biblioteca andrà ad affiancarsi ad altri otto libri di Calasso situati fra un libro di Piero Calamandrei e il Si fa presto a dire fame di Piero Caleffi, un tempo famosissimo tra i libri che rievocavano i destini di chi aveva bazzicato le prigioni e i lager nazifascisti. Sarà dunque in buona compagnia? A me pare di sì, e tanto più che il padre di Roberto Calasso, il professor Francesco Calasso, era un giurista generazionalmente attiguo a Calamandrei. Quando i gappisti comunisti uccisero a Firenze Giovanni Gentile, il professor Calasso venne preso a ostaggio dai tedeschi assieme ad altri due intellettuali italiani. Federico Gentile, il figlio del filosofo, mi raccontò che lui si precipitò dai nazi a chieder loro che non insozzassero con altro sangue il nome del padre assassinato. I tre ostaggi vennero liberati. E dunque la scelta di mettere Calasso figlio accanto a Calamandrei e a Caleffi sta in piedi eccome. Naturalmente, e come sempre quanto al collocare i propri libri, avrei potuto fare una scelta diversa. Non esiste una ricetta che risulti in ogni caso la migliore. Quando fra un anno o due cercherò quel libro di Calasso, spero di ricordare dove lo avevo deposto. Quella ricerca il più della volte è un supplizio, specie se hai in casa scaffali zeppi di oltre ventimila libri. E del resto lo stesso Calasso cita il poeta inglese Thomas S. Eliot, il quale quando aveva bisogno di un libro che sapeva benissimo di avere ma di cui non si ricordava dove diavolo lo avesse messo, se lo andava a leggere in una biblioteca pubblica. E comunque l’ordine alfabetico, seppure primitivo da un punto di vista culturale, è un buon criterio da adottare nella buona parte dei casi. Salvo quando devo riporre un libro del mio amico Ernesto Galli della Loggia. A metterlo in ordine alfabetico negli scaffali dedicati alla saggistica italiana dei nostri anni, lo metto alla “G”, alla “d” o alla “L”?

 

Nel suo succulento libretto Calasso non poteva non prendersi beffa di quelli che se ritratti in televisione manifestano un certo cipiglio nell’avere alle loro spalle dei libri, come a voler significare che la loro vita ne è nutrita. Basta guardarli in faccia per accorgersi che non è vero niente, da come scrive Calasso: “Nulla di più desolante di certe interviste televisive con sindacalisti e uomini politici italiani, girate nei loro uffici. Dietro la persona che parla si intravedono due o tre scaffali e si capisce subito che lì non c’è un solo libro. Sono atti di convegni, relazioni, pubblicazioni in omaggio, repertori, annuari, forse anche le poesie di un parente. Niente che sia destinato a essere letto”. Le non poche volte che una troupe televisiva è entrata nel mio studio a riprendermi mentre chiacchiero del più e del meno, ho accuratamente evitato che alle mie spalle rilucessero dei libri. Oltretutto i libri che tengo i più vicini alla poltrona della mia scrivania hanno un contenuto e una rievocazione del tutto “sentimentale” e personalissima, la collezione completa di “Giovane critica” alla quale ho dedicato dieci anni della mia vita; la collezione completa dei “Quaderni rossi” di Ranieri Panzieri che modellarono la mia formazione politica; una piccola antologia di scritti da “’L’Italiano” del maestro Leo Longanesi (la collezione completa di quella mirabolante rivista sta in un’altra libreria); un volume dedicato alla città di Marradi dov’è fotografata l’insegna della tipografia in cui venne stampato nel 1914 I canti orfici, e quella tipografia stava a metà strada tra la casa natale di mio padre e la casa della famiglia Campana. Libri così.

 

Fino a qualche anno fa avevo retto la sfida rappresentata dal mettere in ordine i miei libri. Ciascun volume andava lì dov’era predestinato. I saggi di letteratura francese nei loro comparti. Le prime edizioni della grande letteratura italiana del Novecento nella libreria a loro dedicata che mi aveva disegnato Pablo Echaurren. I libri americani le cui copertine erano state disegnate da Andy Warhol nella stanza che ospita così tanti libri e riviste sue. Libri e albi a fumetti attinenti ad Andrea Pazienza nella libreria in metallo costruita da Roberto Mora per loro. I libri eruttati dal genio infinito di Bruno Munari deposti accanto a quelli di Enzo Mari e su Enzo Mari, in una stanza dove ciascun arredo esalta la creatività italiana anni Cinquanta/Sessanta. Tutto questo ha funzionato sino a cinque o sei anni fa, quando una depressione nervosa durata 6-7 mesi mi ha reso impossibile leggere i libri, altro che metterli in ordine.

 

A questo punto, il meccanismo s’è inceppato e dunque nelle stanze della mia biblioteca si è formata la tribù delle pile, libri messi l’uno sull’alto a formare delle pile. Ce ne saranno quindici o forse venti poggiate per terra o su uno sgabello. Arriva un libro – comprato su Amazon o da un libraio antiquario o mandato da una casa editrice –, lì per lì non posso leggerlo né riesco a deporlo nello scaffale che sarebbe il suo, lo poggio su una pila dove il libro scompare dalla mia memoria, spero non per sempre. Capisco a questo punto della mia vita quel che mi disse il professor Paolo Sylos-Labini la volta che ero andato a intervistarlo nel suo studio, lassù in una traversa di via Nomentana. Mentre parlavamo, dalla stanza accanto veniva una specie di tramestio. Era suo figlio che stava mettendo ordine nella sua libreria, il cui disordine s’era fatto allarmante. Chiesi a Sylos-Labini, a modo di esempio, se lo sapesse dove stavano i suoi libri di Benedetto Croce. “Non lo so, lo suppongo”, rispose. Ecco, quanto al riuscire a tenere in ordine i miei libri sono entrato nell’èra della “supposizione”.

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