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Quell'Italia un po' brutale

Andrea Bentivegna

"Brutalist Italy", il nuovo volume pubblicato per Fuel da Roberto Conte e Stefano Perego, è un’imponente operazione documentaristica per immortalare e restituire dignità a edifici spesso definiti “brutti” con spaventosa superficialità

Il brutalismo è stato finora un tema vagamente nord europeo ma soprattutto da ex DDR o suggestioni sovietiche. Brutalist Italy – il volume appena pubblicato per Fuel – ha il merito di mettere finalmente su questa mappa anche l’Italia. E lo fa letteralmente. Due tra i più apprezzati fotografi d’architettura in circolazione – Roberto Conte e Stefano Perego, già autori di Soviet Asia – hanno attraversato il nostro paese in lungo e in largo per cinque anni immortalando e talvolta scovando oltre un centinaio di esemplari di brutalismo nostrano. Un’imponente operazione documentaristica ma anche una vera e propria indagine sul campo, dal momento che, in alcuni casi, i due hanno individuato progettisti ancora poco noti alla storiografia. Ma ancor di più il merito principale di questo volume rimane quello di aver finalmente celebrato anche qui da noi questa architettura.

 

Se ne sfogliamo le pagine ci troviamo di fronte una galleria di foto straordinarie capaci di restituire la dignità di architettura ad edifici spesso definiti “brutti” con spaventosa superficialità. Eppure, come afferma nella prefazione lo storico Adrian Forty, “Il cemento sembra essere stato più profondamente radicato nella cultura architettonica italiana (quindi più difficilmente eliminabile) rispetto a quanto avvenuto altrove”. Percorrendo oltre 20.000 chilometri attraverso la penisola, Conte e Perego hanno ritratto il Forte Quezzi a Genova o il Rozzol Melara di Trieste che al pari di Corviale e delle Vele di Scampia sono ancora troppo spesso raccontati come distopici mostri da polverizzare. Nel libro questi sono fotografati insieme a indiscutibili capolavori dei vari Michelucci, Tange, Musmeci o la Casa del portuale a Napoli, iconica torre firmata da Aldo Loris Rossi tra il ’69 e l’81. Accanto ad essi poi ci sono pure edifici meno noti, che potremmo definire da “prima repubblica”, come la biblioteca di Avezzano o la chiesa della Sacra Famiglia di Salerno – testimonianze dell’inattesa audacia formale di Paolo Portoghesi – ma anche gli esperimenti sulla prefabbricazione condotti da Pierluigi Spadolini negli anni 70 e persino alcune suggestive architetture rimaste incompiute.

 

Un viaggio necessario per comprendere come gli edifici in cemento armato testimoniano una pagina rilevante della storia dell’architettura del XX secolo. Una storia che andrebbe per prima cosa compresa e contestualizzata nell’ambito degli epocali cambiamenti sociali, economici e soprattutto culturali di quel periodo. Questo libro ci auguriamo sia il primo tentativo di accendere un faro sul brutalismo italiano, il primo passo per un’ormai necessaria riscoperta di questo stile tutt’altro che marginale nella storia dell’architettura del nostro paese. Come conclude sempre nella prefazione Forty infatti: “E’ soprattutto nella volontà di riconoscere che il cemento possa riferirsi a più di un’epoca, rappresentando contemporaneamente presente (o futuro) e passato, che gli architetti italiani si sono distinti dai loro colleghi all’estero”.

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