Tito e il suo cemento

Al Moma la grande mostra dedicata al modernismo nella ex Yugoslavia. Il Maresciallo era il committente ideale di una terza via laterizia

Michele Masneri

Che momento, per la ex Yugoslavia: non solo tutti hanno preso d’assalto la Croazia per l’estate: è arrivato anche il fatale momento della rivalutazione e consacrazione architettonica. Una grande mostra al Moma, “Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980”, spalanca finalmente gli orizzonti sul modernismo jugoslavo, su quello stile nato nel Dopoguerra e fiorito sotto il maresciallo Tito: e forse vanno dunque ritirate le alzate di ciglio verso quegli amici che si affannavano molto per trascorrere settimane a Belgrado (magari senza essere mai stati a Los Angeles). Con tante scuse: secondo il New Yorker, “se il brutalismo rivive un suo momento di grazia per la sua onestà materiale, è anche strettamente collegato alla democrazia sociale titina”. La Jugoslavia era “uno strano stato comunista con centri commerciali, standard di vita decenti, relativa facilità di viaggiare, e commedie inglesi in tv”.

    

  

Luka Skansi, uno dei curatori della mostra, ne è convinto. Dice al Foglio: “Dal dopoguerra agli anni Settanta c’è stata l’epoca d’oro del cemento armato, per la grande sincerità espressiva che questo materiale permetteva all’architettura”. “Come nell’arte povera si facevano parlare i materiali, il ferro, le plastiche di Burri, così in architettura si lasciava parlare il cemento, senza nasconderlo. Il Moma da anni ha in atto una ricognizione delle forme alternative di modernismo, intendendo per modernismo quel momento storico in cui non si tiene più conto del passato, della tradizione, ma si ha una fiducia sconfinata del progresso”, dice il critico. Il modernismo nella ex Jugoslavia trova terreno fertile grazia anche alla terza via di Tito: “Gli architetti sono liberi di andare all’estero, hanno accesso alle migliori riviste, non è come in Russia che dovevano aspettare i convegni mondiali per poter viaggiare. Quindi sono perfettamente aggiornati sul meglio della ricerca internazionale. Che però poi possono applicare su base statale, quindi con pianificazione: per la nuova Belgrado progettata nel 1948 e in 15 anni si realizza una città per cinquecentomila abitanti; una cosa che oggi sarebbe possibile solo in Cina”.

 

 

“I modelli urbanistici sono impressionanti: con ricerca costruttiva avanzatissima, i migliori tecnici spediti in giro per il mondo, in grado di realizzare in 100 giorni palazzi di otto piani e 100 appartamenti. Gli architetti poi prendono a modello le città giardino di Le Corbusier, realizzandole però meglio perché la proprietà è tutta di stato, quindi non hanno problemi di decisioni ed espropri”. Ma non c’è solo Belgrado: “A Skopje nel 1963 c’è un grande terremoto e si pone il problema della ricostruzione. Tito, furbo com’era, chiama immediatamente Krusciov e lo porta a vedere le miserie della città devastata, e si fa dare gli aiuti. Nel frattempo chiama le Nazioni Unite, che fanno un concorso internazionale che verrà vinto da Kenzo Tange che ricostruisce Skopje coi più avanzati modelli architettonici”.

       

Poi il turismo: “L’intera Croazia, territorio sostanzialmente vergine, viene dotata di strade, grandi alberghi a 150 metri dalla spiaggia, con grande rispetto ambientale: quella che qualcuno chiama una socialist arcadia”, dice Skansi (e qui viene in mente Drenka Balich, l’immortale locandiera croata del Teatro di Sabbath di Philip Roth, che da questa arcadia era fuggita, non apprezzando a sufficienza la sincerità del calcestruzzo, sognando invece l’America).