Chissà come si sarebbe trovato e cosa avrebbe detto il pubblicitario se avesse potuto occuparsi anche oggi di comunicazione, in quest’epoca molto corretta e molto suscettibile, con il suo indotto di autocensure sottili e pervasive
Chissà come si sarebbe trovato e che cosa avrebbe detto, Armando Testa (1917-1992), se avesse potuto anche oggi occuparsi di comunicazione. Non per farne sempre una questione di spirito del tempo o per ridurre lo status di una figura come la sua, ci mancherebbe; però un pensierino viene, a noi di quest’epoca molto corretta e molto suscettibile, con il suo indotto di autocensure sottili e pervasive. Certo è che a percorrere le dieci sale della mostra ora a lui dedicata – alla Ca’ Pesaro di Venezia, fino al 15 settembre – si è come presi da una sensazione di freschezza, di spontaneità, di divertito (e divertente) slancio espressivo. Era pure il contesto generale, a spingere in quella direzione: “L’esplosione di energia creativa che Testa sprigiona nella seconda parte degli anni Cinquanta e nel decennio successivo è indissolubilmente legata al miracolo economico italiano”, nota Tim Marlow, che ha curato l’esposizione assieme a Gemma De Angelis Testa e a Elisabetta Barisoni: “La fondazione dello Studio Testa nel 1956 fu pionieristica nell’evoluzione della pubblicità televisiva, ed è qui che la capacità testiana di creare una sintesi tra i linguaggi visivi contribuì a realizzare alcuni dei personaggi e degli slogan più riconoscibili ed epocali nell’ambito della cultura popolare del Dopoguerra”.
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