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Terrazzo

Il dress code del politico

Giacomo Giossi

L'importanza del vestire e di come la moda possa forgiare la storia è un tema per nulla scontato e ancora poco indagato. Dalla crisi di stile alla fine del secolo scorso all'armocromista di Elly Schlein

Non sappiamo se Elly Schlein abbia ereditato il suo stile dal padre o dalla madre, ma di certo non lo ha preso – armocromia o meno – dai padri del partito. Già alla fine del secolo scorso i professionisti della politica si trovarono parecchio in crisi in termini di dress code (e non solo). Achille Occhetto pensò bene di opporsi a un fulgido – e allora esordiente in politica – Silvio Berlusconi, con un completo che offriva alle pupille degli elettori in diretta televisiva un impastato infinito di beige molto più affine al venditore di scarpe Al Bundi della sitcom Married... with Children, per altro trasmessa dai canali dell’allora Fininvest. Poi seguirono i dubbi in fatto di tweed, più volte narrati dall’ex lothar Claudio Velardi, di Massimo D’Alema, per non parlar poi dello scandalo scarpe superato solo dallo scandalo barca a vela. Ovvero non conta se ci si veste bene o male, ma conta chi si vuole rappresentare e in sostanza chi si è. Già perché nessuno ha mai trovato sconvenienti i completi blu (abbondanti come da tradizione comunista) con calzino color nebbia di Alessandro Natta che restava però se stesso anche intervistato da una frizzante Raffaella Carrà nella cornice del varietà Pronto Raffaella?. L’importanza del vestire e quindi di come la moda può forgiare la storia è un tema per nulla scontato e ancora poco indagato. Arriva in soccorso, nella bella traduzione di Valeria Lucia Gili, un bellissimo volumone telato dal titolo Dress code (Il Saggiatore) scritto dall’eclettico professore di Legge a Stanford, Richard Thompson Ford, già autore del fondamentale Racial Culture: A Critique (Princeton University Press). Dress code è un appassionante viaggio nella storia vista attraverso i costumi, gli abiti e quindi la moda. Là dove la moda è linguaggio immediato (Miuccia Prada docet), ma al tempo stesso capace di cambiare radicalmente la prospettiva alla società e alle sue regole. E sono le regole il cardine attorno a cui si sviluppa il libro. Perché rispettare le regole o infrangerle definisce, all’interno di un movimento continuo e fluido, la qualità di uno stile, l’efficacia di una rappresentazione e in sostanza l’identità del vestito, inteso come colui che veste e come l’abito vero e proprio. Dagli schiavi delle piantagioni di cotone degli Stati Uniti del sud, alle conigliette di Playboy, dall’identità sociale dettata dai movimenti e dalle comunità alla rappresentazione dell’individuo e delle sue peculiarità. Dress code è un vero e proprio libro mondo capace di illuminare un aspetto come il vestire che è sempre sì sotto gli occhi di tutti, ma mai all’interno di uno sguardo progressivo che ne mostri l’efficacia nel tempo come sa fare invece con scrittura brillante Richard Thompson Ford. Perché il dress code è il risultato di un ritmo che vibra tra il rispetto della regola e la sua forzatura. Una capacità di cogliere l’attimo che non a caso corrisponde alla qualità del portamento (che vale spesso più della bellezza stessa) e alla qualità del politico e della sua politica. Un attimo colto che deve però reggere il tempo, abbattendo il presente per entrare nella storia.

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