Riflessioni a due

Il grande inganno dell'armocromia

Fabiana Giacomotti

Chiacchierata con il regista e costumista Yannis Kokkos sui pregiudizi sociali che ci portano a voler vedere le donne “uniformi all’immagine che il mondo si è fatta di loro”. Lucia di Lammermoor, Rusalka o Elly Schlein, poco cambia

Per la donna occidentale di oggi, c’è un momento topico, nella Lucia di Lammermoor diretta, scenografata e vestita da Yannis Kokkos che domani conclude il suo percorso scaligero, ed è il momento in cui Lisette Oropesa, la “sposa di Lammermoor”, si libera del busto che la stringe, in quella che è nota come la “scena della pazzia”: il pubblico vede Lucia vestita di bianco dalle note che lasciarono il suo autore, Gaetano Donizetti, e il librettista Salvatore Cammarano: “Lucia è in succinta e bianca veste”.

 

Era il 1835. Da allora la bianca veste, lordata preferibilmente del sangue del neo-sposo, Arturo, di cui Lucia si è sottratta a quello che è a tutti gli effetti uno stupro legalizzato e che in genere riserva un’intima soddisfazione alle spettatrici, si ripete un allestimento dopo l’altro, come un topos, ma anche come un insieme di codici che in occidente rimandano da oltre trecento anni alla donna “data in sposa”: la bianca vergine, al tempo stesso dea vincitrice e vittima sacrificale degli interessi maschili (fra poche settimane alla Scala andrà in scena “Rusalka” di Antonin Dvorak e non ci sono dubbi che Emma Dante tratterà il tema della femminilità tradita da par suo). Dice Kokkos, incontrato nel suo camerino di “regista ospite”, che questa Lucia scaligera “si uniforma all’immagine che il mondo, la società si aspettano da lei, sia nella scena dell’incontro con il fratello e il confessore, dove è vestita quasi da brava scolara ubbidiente, fino all’abito del fidanzamento, dove ho voluto cedere alla memoria collettiva, con l’immagine di una promessa sposa classica (l’azione dell’opera si svolge nel primo Settecento, dunque il momento topico per la legislazione dell’epoca non sono le nozze, ma appunto il contratto di matrimonio, cioè il fidanzamento, ndr).

 

Sei anni fa, lo stesso Kokkos, che è un frequentatore di topos vestimentari femminili dal lontano 1988 in cui diresse ad Avignone una versione teatrale completa, oltre dieci ore, del “Soulier de satin” di Paul Claudel, con una scarpina di peso semantico smisurato lasciata da Dona Prohuèze ai piedi della Vergine, allestì a Beijing una versione della “Lucia” molto aderente al dramma storico originale di Walter Scott, in abiti cinquecenteschi, dominata dal rosso. Ma Lucia era ancora e sempre in bianco, anche in un secolo che tendenzialmente vestiva le donne prossime al matrimonio in colori diversi. Dunque? Quanto siamo ancora dominati dai codici e dai pregiudizi culturali nell’abito e negli ambienti che spettano alle donne, quelli che a dispetto del nazionalismo linguistico del momento piace chiamare in inglese “bias”, come il taglio sbieco, the bias cut, si è visto nei giorni scorsi per gli attacchi ricevuti da Elly Schlein, segretaria del PD, dopo un’intervista a Vogue Italia in cui ha confessato, un po’ sbadata e ingenua, un po’ orgogliosa, di essersi affidata a una “armocromista” per migliorare il proprio rapporto, certo un po’ difficoltoso, con l’abito e con la propria immagine. Il risultato è certamente mediocre – un bravo consulente di immagine, del genere di lord Timothy Bell che curò aspetto, modi e voce di Margaret Thatcher, avrebbe evitato per una leader la pedissequa adesione ai codici dello stile del momento, nel caso specifico il “quiet luxury”, per studiarle un’immagine distintiva a vincente – ma il punto non è questo: il punto è che a una donna, e una donna che dovrebbe incarnare i cosiddetti “valori della sinistra”, si fa fatica a riconoscere la volontà di abbracciare un’immagine, e dunque codici semantici, diversi da quelli che ci si attende da lei.

 

Lo scorso 28 aprile, sul Foglio (titolo: “Per una volta che la sinistra vuole vestirsi meglio, la classe operaia si indigna”), abbiamo discusso se con questa scelta – l’intervista a “Vogue”, la citazione dell’armocromista, per di più di modesto curriculum – la segretaria del PD avesse voluto smarcarsi dai valori tradizionali del suo partito, che includono per tradizione più che per pratica l’ostilità per le manifestazioni di vanità e distinzione personale, e segnalare con questo la propria ricerca di consenso in ambienti diversi, e cioè nella cosiddetta “élite”, culturale e sociale. La risposta peggiore, o migliore per certificare la correttezza di questo ragionamento, l’ha data l’altro giorno Maurizio Gasparri con il post, pieno di sottintesi volgari, in cui invitava Schlein a “scegliergli la cravatta”. L’epoca dei bustini indossati non per scelta, ma per costrizione, è tramontata da oltre un secolo. Eppure, il gesto di quella fittizia Lucia “chiusa nella prigione dei sentimenti e delle pesantezze patriarcali” che si strappa quell’indumento in scena ci pare ancora carico di significato. Ben al di là di quel giochetto medievale che è l’armocromia.