Foto di Abir Sultan, via Ansa 

Terrazzo

Sukkot, o la festa delle capanne, in cui si celebrano ripari transitori e fragili

Manuel Orazi

Nella festività che precede Hannukkà, gli ebrei ricordano il loro esilio nel deserto. Si costruiscono abitazioni precarie con regole precise, che ricordino la natura fuggitiva della vita. E, di conseguenza, dell'architettura  

Da tanti anni non si vedevano più grandi opere editoriali avventurose come quella intrapresa dalla fiorentina Giuntina, almeno da quella della Letteratura italiana curata da Alberto Asor Rosa negli anni Novanta. La pubblicazione integrale del Talmud babilonese prosegue con il volume 7 (su 37 previsti), il trattato Sukkah che è singolare di Sukkot, “capanne”, festività che precede quella di Hanukkà che più o meno coincide col Natale – ci si scambia doni sotto le luci anche lì. La festa delle capanne è unica: per ricordare il lungo esilio degli ebrei nel deserto, per una settimana vanno costruite delle capanne secondo alcune regole precisissime a eterna memoria della natura fuggitiva della vita e indirettamente dell’architettura.

 

Se per Vitruvio questa nasce da un incendio in un bosco, che crea uno spazio aperto stabile e sicuro dove gli uomini si radunano spontaneamente, durante Sukkot invece l’architettura è un riparo transitorio e fragile ed è proprio questo che rende la concezione ebraica più affine all’architettura moderna, caratterizzata da un carattere provvisorio, basti pensare alla grande velocità con cui mutano luoghi chiave quali aeroporti, centri commerciali, hotel ma anche uffici, Airbnb e le nostre stesse case.

 

In Ebraismo e architettura (Giuntina 2018), Bruno Zevi scrive: “La vita ebraica, scandita sul Libro e commentata dal Talmud, è permeata di storia, cioè da una coscienza temporalizzata dei compiti umani… in nessun caso l’ebraismo è riducibile a una concezione spaziale”. Il Talmud, noto anche come il grande mare per la sua vastità, è paradossalmente affine al deserto cui le capanne coperte di palme intrecciate rimandano: nel deserto “you can remember your name” (America, A Horse with no Name, 1971) e riscoprire l’archetipo dell’architettura moderna che si basa sul mito della capanna primitiva non solo secondo l’abate Marc-Antoine Laugier, Henry David Thoreau, ma anche secondo Le Corbusier, che cento anni fa vedeva coincidere casa, tempio e capanna: “Non esiste l’uomo primitivo; ci sono solo mezzi primitivi. L’idea è costante fin dai primordi”.

 

Da ultimo Joseph Rykwert in La casa di Adamo in Paradiso (Adelphi 1972) termina la sua raffinata analisi proprio sul Talmud e sulla huppah, il tabernacolo di stoffa e frasche dei matrimoni ebraici che possono essere celebrati ovunque anche nel deserto, appunto, perché basta una capanna per permettere “la mediazione tra le intime sensazioni degli sposi e il senso del grande mondo inesplorato tutto intorno”. Anche per questo Sukkot è nota come la festa dei tabernacoli: leggeri simulacri religiosi che rimandano alla natura più profonda, e attuale, dell’architettura contemporanea.

 

Aldo Rossi lo aveva capito col suo Teatro del Mondo del 1979, un’architettura di legno effimera proprio come quelle della Feria di Siviglia o delle cabine dell’Elba. Oggi invece costruiamo semmai capanne virtuali, create inavvertitamente con lo smart working, i social media o OnlyFans: estensioni temporanee delle nostre identità-abitazioni private come suggerito di recente da Emanuele Coccia in Filosofia della casa (Einaudi 2021). Dopotutto hadar, che in ebraico significa abitare, è anche l’antico termine per indicare il cedro, una delle piante usate per celebrare Sukkot. Perciò quest’ultimo trattato talmudico pubblicato è uno di quei casi in cui l’origine è la meta o, se preferite, dove ebrei e architetti zevianamente coincidono.

Di più su questi argomenti: