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Sanremo logora chi lo fa

“Travolta? Voleva fare il furbo nella patria dei furbi”, dice l'ad Rai Roberto Sergio

Salvatore Merlo

I dolori di Amadeus e dell’ad Rai, solo il circo degli scrocconi delle tante feste sponsorizzate dalle grandi aziende che si fanno pubblicità si diverte al Festival.

Sanremo. All’ora di pranzo, al ristorante la Pignese, sul porto di Sanremo, forse l’unico locale quasi decente di questo cittadone ligure in cui i ristoranti imbandiscono sbobbe tanto remote dal cibo che è un miracolo uscirne vivi, ecco l’amministratore delegato della Rai. Roberto Sergio compulsa il cellulare. Poco più in là c’è il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi, che è stato anche un autore di Sanremo ai tempi in cui c’era ancora il supermanager Lucio Presta. Anche lui è sotto assedio, Sergio, come Amadeus. O per lo meno si sente sotto assedio. Tutto diventa d’altra parte enorme, qui a Sanremo. Di più di quello che probabilmente è in realtà. Dunque il dottor Sergio annuncia di voler fare causa a John Travolta, che aveva firmato un contratto in cui dichiarava esplicitamente d’impegnarsi a non fare alcuna pubblicità. “Voleva fare il furbo in Italia, rubare a casa dei ladri”, prova a scherzare. L’eterna versione, o l’eterno ritorno, di acca nisciuno è fesso. Ma poi si fa serio, e allora vuole anche aprire un’inchiesta interna, l’amministratore delegato. Esclude categoricamente che qualcuno tra i collaboratori della Rai, o di Amadeus, fosse d’accordo per mandare in onda l’immagine di quelle scarpe di marca indossate dall’attore americano: “Ma se così non fosse, noi lo scopriremo e cacceremo qualsiasi collaboratore o dipendente infedele”.

Non capisce perché i giornali insistano così tanto sui trattori, Roberto Sergio. Non si capacita di come parlino così poco dello spettacolo, della buona musica, del messaggio lanciato da Giovanni Allevi a proposito della malattia e della bellezza della vita. Insomma la verità del Festival di Sanremo è che non se lo gode nessuno. Almeno nessuno di quelli che lo fanno. Anzi. E’ una camera delle torture, Sanremo. Mentre tutt’intorno rotea un mondo allegro e circense: per i giornalisti in sala stampa, per esempio, Sanremo è un po’ il festival della vanità personale, e dello scrocco serale nelle tante feste sponsorizzate dalle grandi aziende che si fanno pubblicità.

E poi ci sono attori sconosciuti, attrici dal seno brado, leccapiedi, sottopancia ministeriali, organizzatori di congressi sullo slip o sul tartufo, comici, ballerini artritici, manager di case discografiche, amici e cugini stretti di sottosegretari, ministri o cardinali. Questi si divertono, tutti. Assai. Come la gente assiepata dietro e davanti al teatro Ariston. C’è la signora in ghingheri che viene da Larderello, provincia di Pisa, e ha pagato mille euro per sedersi in galleria e vedere Massimo Giletti seduto in platea (o meglio, ha pagato mille euro per non vedere proprio nulla: dalla galleria infatti non si vede un tubo). C’è poi quella che fra dita e seni avrà un milione di gingilli addosso, e infatti sembra una cassetta di sicurezza ambulante. E poi ci sono quelli che non hanno impegnato l’argenteria per comprare il biglietto. Quelli che Fiorello saluta così dal balconcino che s’affaccia sul teatro: “Ciao poveri”. Questi oscillano a grappoli davanti alle transenne che circoscrivono l’ingresso artisti dell’Ariston. Talvolta esultano al passaggio del sosia di Pavarotti o di Liz Taylor, che in effetti è il massimo del brivido. Si sgolano al passaggio di ogni furgoncino nero coi vetri oscurati che s’infila nel retropalco. Il furgoncino passa, e quelli urlano. Chiamano. Invocano. Ma chi? Per quanto se ne sa questi minivan potrebbero persino essere vuoti. O pieni di nullità, che forse è la stessa cosa. Ma loro sono contenti comunque. E però sono gli unici contenti.

Alle 20.40 Amadeus entra in scena, scende le scale, sorride, ringrazia, parla di felicità e di amore per il Festival. Che grande professionista. Chissà cosa pensa, in realtà, sotto la maschera. La verità è che nemmeno Amadeus riesce a godersi fino in fondo il successo di pubblico. Dorme poco, dorme male, pur accudito da Gina e Gianfranco, che sono i suoi collaboratori storici e angeli custodi. Vorrebbe occuparsi di musica e spettacolo, ma ha invece a che fare con un sistema di cui intuisce le regole, certo, ma che non governa e non comprende fino in fondo: lui i trattori, per esempio, li avrebbe ospitati. Ma gli hanno detto che non si poteva. E la cosa si è ingigantita.

Tutto infatti qui diventa politica, all’italiana per giunta, che è il veleno ma anche il carburante della Rai. E poi però diventa anche la tossina che intossica Sanremo. John Travolta diventa un caso politico con interpellanze e dichiarazioni dei parlamentari, diventa l’occasione addirittura di una piccola resa dei conti dentro alla maggioranza di governo. Pure i trattori sono un caso politico con i giornali e la sinistra che accusano il Festival di non ospitarli per evitare imbarazzi al ministro Francesco Lollobrigida. E il nervosismo, la tensione, si sa, sono una malattia a largo spettro infettivo. Sicché Amadeus passa metà del pomeriggio chiuso in una stanza al secondo piano dell’Ariston. O forse è il terzo piano, ma è difficile orientarsi nel labirinto di questo teatro troppo grande per essere un teatro di provincia, ma anche troppo piccolo per ospitare una macchina enorme come quella del Festival. Dietro al palco, per dire, maestranze e artisti si muovono in uno spazio caldissimo e strettissimo in cui è necessario che ogni spostamento sia calcolato al minuto e al millimetro per evitare intasamenti. E pasticci. Alle 16 Amadeus è in riunione con i suoi autori. Ogni tanto, dall’anticamera, oltre il grande tavolo rettangolare bianco, al di là del cesto di frutta con le arance, si sente che le voci si alzano. Non sono litigi. Forse. Si prepara la puntata, la penultima. In un clima che è sempre teso. Sempre di più.  Forse Amadeus un po’ soffre del fatto che non gli venga riconosciuto abbastanza di avere sul serio riportato la musica al Festival, di aver fatto tornare Sanremo un corpo vivo dove gareggiano cantanti in ascesa e non vecchi rottami in disuso. E forse, chissà, il direttore artistico e conduttore ha anche l’impressione che la Rai lo avrebbe abbandonato ai cani sull’affaire di John Travolta, se soltanto questo suo Festival non avesse infranto ogni record. 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.