Ricetta seriale

The Curse, una maledizione contro l'ipocrisia dello zeitgeist

Gaia Montanaro

La serie Paramount+ tocca corde, generi e stili diversi: commedia (decisamente nera), critica sociale, elementi surreali e dramma. Indaga gentrificazione, appropriazione culturale e sostenibilità traducendole in chiave satirica e dissacrante

È un racconto difficile da definire quello di The Curse, serie in dieci episodi da circa cinquanta minuti ciascuno disponibile su Paramount+ (che ne rilascia uno a settimana). Difficile perché ci si trova davanti ad una narrazione che tocca corde, generi e stili diversi. Quelli della commedia (decisamente nera), la critica sociale, elementi surreali e dramma. Ha al centro una coppia benestante di house flipper del New Mexico – formata da Asher (Nathan Fielder) e Whitney (Emma Stone) – che sono anche i protagonisti di un reality sulla loro attività immobiliare. La loro società è sulla carta molto attenta allo sviluppo sostenibile, etico e ambientale anche se le modalità per perseguire tali lodevoli scopi appare abbastanza equivoca. I due vogliono un figlio, che tarda ad arrivare, e Asher – a seguito di uno scambio con una ragazzina mendicante a cui finge (a favore di telecamera) di dare dei soldi per poi riprenderseli – viene colpito da una maledizione che crede realmente influenzi la sua vita.

 

Ciò che fondamentalmente The Curse mette in scena è l’ipocrisia di una coppia che tenta di piacere a tutti i costi, di appiattirsi allo spirito del tempo distorcendone le istanze e facendo di ciò che appare la sostanza della loro vita. Permea tutto il racconto una costante tensione, come se ci si aspettasse sempre che da un momento all’altro qualcuno possa dire o fare qualcosa di terribile. Whitney in questo senso è il personaggio più estremo: avida, arrivista, desiderosa di compiacere il prossimo per la costante necessità di sentirsi amata e apprezzata (deve anche espiare la colpa “sociale” della sua famiglia d’origine, proprietari di case popolari che sfruttano i loro affittuari), la donna incarna una violenza intrinseca e sopita che emerge solo in fugaci espressioni facciali e commenti. Asher è a lei smaccatamente sottomesso, si fa manipolare, vittima di una rabbia repressa che stenta ad esplodere. La sua inettitudine e il suo servilismo a Whitney covano una violenza visibile che mai riesce a trovare uno sbocco. I protagonisti sono insomma due personaggi stratificati, spiacevoli nel loro impatto e che svelano a poco a poco la loro essenza.

 

The Curse non è una serie facile (sicuramente non da indigestione di episodi uno via l’altro). Anche visivamente è un prodotto non così immediato, con una pasta visiva che ricorda un certo cinema indipendente (da Sundance). È ostico come qualsiasi racconto che cerca di fare critica sociale dello stretto presente, mettendo in scena – esasperandoli – i difetti e le mancanze di un certo vivere occidentale. La serie è prodotta da Showtime e A2, scritta dallo stesso Nathan Fielder (già autore di innovative serie comedy) e ha la Stone come produttrice esecutiva.

 

Quali sono i temi di The Curse?

La serie indaga, tra gli altri, il tema della gentrificazione, dell’appropriazione culturale, delle sfide ecologiche e di una vita sostenibile. Tutto questo però viene tradotto in una chiave satirica, grottesca e dissacrante, mettendo in scena le più bieche ipocrisie che in questi fenomeni possono attuarsi. La musica accentua e sottolinea questo tono dominante, straniante e da horror sociale venato di surrealtà. Una serie non per tutti – e sicuramente non da guardare a cuor leggero.

 

Qual è il tono di The Curse in tre battute?

“Fatti umiliare, accettalo”.

“È ok se le metto un po’ di acqua negli occhi?”.

“Siamo i Seagles, non i signori dei bassifondi. Parliamo di noi”.

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