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alla prova del mercato musicale

Sì, c'è qualche concessione al circo e allo share, ma “X-Factor” funziona

Stefano Pistolini

La 17esima edizione del talent, nonostante il calo di ascolti, si conferma laboratorio della nostra musica

È ripartita la liturgia di “X-Factor” e ci sono osservazioni da fare, tra musica e tv. Tanto per cominciare si direbbe che l’onda calante del format sia dietro le spalle. Sebbene gli ascolti siano tutt’altro che entusiasmanti, è percepibile un qual senso di convinzione attorno al progetto, che si potrebbe riassumere nel dire che, per quanto il pubblico ancora non lo premi, si può individuare una funzione, un significato nell’operazione e, parlando di televisione italiana del 2023, questo non è poco.  Quasi che “X-Factor” si sia scrollato di dosso il peccato originale che risiede nella sua natura stessa di talent venato di reality, come se questo status comportasse un dato di volgarità a cui è impossibile porre rimedio, con la conseguenza che tutto ciò che ne sgorga porta incisa la lettera scarlatta dell’abiezione artistica. Questo filone del politicamente corretto in chiave musicale è poco alla volta impallidito, fino quasi a sparire e le cose hanno assunto una loro compostezza. 

È vero che lo show è prima di tutto tale e che il fattore “gara”, la competizione, il melodramma, le eliminazioni, le ingiustizie e via dicendo non appartengono alla sfera creativa di una scena musicale; è vero che i concorrenti continuano a essere oggetti alla mercé della spettacolarizzazione e vivranno illusioni e disillusioni, prematuramente proiettati in una bolla che di colpo esploderà facendoli ricadere nel reale e quasi sempre in un anonimato da cui sarà difficile rialzarsi, dopo aver creduto, per qualche settimana, di essere autentiche star. Ma è altrettanto vero che lo smaliziato pubblico e le schiere di aspiranti partecipanti alla rappresentazione tutto ciò ormai l’hanno capito benissimo, ma sono comunque convinti che l’occasione valga la scommessa, a dispetto del resto. E poi c’è l’impressione, confortata dai fatti – Maneskin, Mengoni, Michelin… – che arrivato alla 17esima edizione, “X-Factor” si sia ormai meritato i titoli di laboratorio della nostra musica, come accettabile contributo all’individuazione di talenti dotati una predisposizione a fare della musica una carriera all’interno dell’industria dello spettacolo, nell’accezione più mainstream. 

 

Seppure tra tribolazioni e incertezze, col tempo il meccanismo del programma si è raffinato proprio nel chiarire il proprio intento: individuare e lanciare un manipolo di facce nuove, reduci da una dura selezione, alla ricerca dei personaggi dotati di quella “X” intesa come capacità e tenuta per affrontare le prove del mercato musicale. È per questo che una dozzina di sconosciuti, spesso pescati nel limbo di quelli che già ci stavano provando senza esito, vengono proiettati in una cornice rutilante, nemmeno fossero popstar sul serio, tra luci, costumi, colori e standing ovation. È un esperimento selettivo che mette i candidati al cospetto del come sarebbe, e poi osserva i risultati. Pochi fortunati li troveremo, qualche mese più tardi, a Sanremo o nelle classifiche e la selezione naturale sarà avvenuta, con un dato in più: l’operato svolto oggi da “X-Factor”, con tutti i suoi compromessi da share, di sicuro non viene fatto dalle salme chiamate “case discografiche”, intese come majors. Certo, soprattutto provvede l’intraprendenza della nostra impresa indipendente, ma qualcosa ci mette anche questo programma, che ormai ha assunto una credibilità, proprio in quanto, le sue regole adesso sono chiare.

Quanto all’edizione 2023, che ha appena imboccato la rincorsa dei “live” – fase di estrema visualità, ma dove ormai i giochi sono fatti e i valori sono dichiarati – stavolta c’è un altro fattore che sta orientando lo show: la composizione della giuria e il suo impatto sul gusto del pubblico. I quattro seduti al tavolo esprimono valori diversi, equamente suddivisi: i due veterani della comitiva, Morgan e Fedez, hanno un ruolo dominante, oltre che un prestigio e una maestria nel gioco che rende gli altri due del tutto subalterni. Morgan gioca sul filo dell’eccesso, ma per ora lo fa bene, con uno smalto che sembrava smarrito. Fedez, al contrario, sembra là controvoglia, come uno che ha ben altri problemi a cui pensare, i guai di salute e forse l’incerta direzione della sua figura pubblica. Perciò il primo ruggisce e il secondo mormora e fa le facce: il fatto è che hanno quasi sempre ragione. Ambra risente d’essere là in omaggio alle quote rosa, non sopporta il malcelato disprezzo musicale di Morgan, si difende gagliardamente e con spirito, ma soffre. Dargen prova a fare il ricamatore futurista, e l’ironico bastian contrario, ma dalla sua non ha quello che hanno gli altri e non sempre con l’arguzia si sovvertono le gerarchie. Se al loro posto fossero seduti Manuel Agnelli, o Elio si avrebbe la giuria perfetta, da giudizio universale. Ma resta il fatto che questa è una giuria vera, dedicata, che fa scelte, proposte ed errori con una cognizione di causa di cui il pubblico e musicisti colgono l’accettabile autenticità.  
Poi ci sono i concorrenti, e, se li seguite, avrete già eletto il vostro beniamino. Va comunque detto che il livello non è disprezzabile, l’impegno e le qualità meritano spesso un occhio di riguardo e danno una qual scossa di novità. Certo, c’è un che di circense e lontani sono gli anni degli intellettualismi underground. Ma il catalogo è questo, e perciò viva il circo e i domatori dei “quattro sì”. Per illuderci che della musica ancora in Italia ci sia voglia, desiderio e bisogno.
 

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