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crisi di contenuti

Il declino della “prestige tv”, ormai fatta di spettri dei programmi passati

Mariarosa Mancuso

Serie bizzarre, revival o reboot: una valanga che disorienta. E’ finita la stagione degli acquisti forsennati. E degli spettatori che accumulano abbonamenti per ritrovarsi la sera senza nulla da guardare

Grande è il disordine in televisione. Ce ne accorgiamo da soli: nessuno guarda la stessa serie tv di amici, congiunti, conoscenti, e pure critici. Vediamo il titolo di una serie promettente, i giudizi o le opinioni bisogna cercarli. Non troppo tempo fa, i titoli e gli articoli sulle serie da vedere erano una confortevole nuvola attorno a noi, ben prima che il programma sbarcasse sulle nostre tv o piattaforme streaming. “The White Lotus”, per esempio, è arrivato senza fanfara. La seconda stagione è esplosa perché girata a Taormina. E adesso? Lo chiede il Washington Post in coincidenza con le conquiste sindacali degli sceneggiatori Usa. Oltre quattro mesi di sciopero, e l’accordo appena raggiunto, hanno avuto sullo sfondo due terremoti. Primo, il declino della “prestige television”. Secondo, le piattaforme streaming che hanno iniziato a distruggere la tv come l’abbiamo conosciuta – e cominciano a tirare le somme dalla loro “generosità”. La valanga di nuovi contenuti proposti agli abbonati è servita a guadagnare soldi? (è questa la loro missione, non certo il nostro divertimento). Le piattaforme non sono gratis, ma abbastanza a buon mercato per far sospettare che il prodotto siamo noi.

La definizione Peak Tv risale al 2015, coniata da John Landgraf. Troppe serie, si annunciavano negli Stati Uniti 400 titoli nuovi. L’anno scorso erano 599: dovrebbe essere il colmo dopo il quale si comincia a scendere, cancellando questo o quel programma. La “prestige tv” era già in declino da parecchio: l’ultimo premiatissimo campione della categoria – la quarta stagione di “Succession”, showrunner Jesse Armstrong – è andata in onda poco prima dello sciopero. Il Washington Post non si sbilancia, non tira fuori la sfera di cristallo, si limita a leggere gli indizi (ovverosia: la cancellazione di programmi già in fase avanzata). Le piattaforme streaming si orienteranno verso serie più tradizionali, lasciando poco spazio alla sperimentazione. In realtà – non è un segreto – stanno cercando il nuovo “Game of Thrones”. Ma lo stanno cercando dalla parte sbagliata, è Shakespeare che devono inseguire, non tutte le storielle fantasy con draghi e draghetti. Va pure detto che il nuovo “Game of Thrones” – per popolarità internazionale e ricadute economiche – probabilmente son somiglierà per nulla al “Trono di spade”. I successi veri non sono mai fotocopie di successi precedenti.
 

Ci saranno revival e reboot, e fin qui possiamo capire (ma non condividere): in giro c’è tanta voglia di nostalgia. Poi arriva la doccia fredda: formule collaudate, algoritmi, meglio se assistiti dall’Intelligenza artificiale (proprio le cose contro cui gli sceneggiatori hanno combattuto, dando fondo ai risparmi). Abbassando le barriere d’entrata – c’era sempre più bisogno di copioni, passavano anche le idee originali o bizzarre – la Peak tv ha portato con sé personaggi ambigui, o situazioni eticamente complesse. Per esempio “Transparent”, oppure “Fleabag” (il sacco di pulci Phoebe Waller-Bridge si è conquistata un posto accanto a Indiana Jones). E’ finita la stagione degli acquisti forsennati. E degli spettatori che accumulano abbonamenti per ritrovarsi la sera senza nulla da guardare. Una sciocchezza si può vedere, tante sciocchezze fatte con lo stampino – neanche c’è bisogno dell’Intelligenza artificiale – annoiano anche chi usa la tv come sonnifero. “La televisione era diventata arte – o almeno cinema. Se ne chiacchierava, e anche questo – scrive sempre il Washington Post – ci mancherà”. La tv è infestata dagli spettri dei programmi passati, più che uno sceneggiatore servirebbe un esorcista.

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