Alan Friedman e Edward Luttwak, durante una puntata di Di Martedì su La7 (Screenshot da Youtube)

Te la spiego io l'italia

Il fascino esotico nei talk: Luttwak, Friedman e Emmott spiegano un'Italia che conoscono poco

Andrea Minuz

Gli ospiti stranieri sono ormai un punto fermo del nostro immaginario politico. Nessuno come noi è così ansioso di sapere cosa pensano “gli altri”. Aspettiamo da loro una rivelazione

A ridosso delle elezioni si nota di più, ma si sa che è una nostra fissazione perenne. Nessuno come gli italiani è così ansioso di sapere cosa pensano “gli altri”. Come ci guardano, scrutano e giudicano gli osservatori internazionali. Aspettiamo da loro un cenno, una rivelazione, un’indicazione che teniamo o fingiamo di tenere sempre in gran conto. Difficilmente vedremo Sallusti sulla Cnn, Santoro che sbraita sulla Bbc o Scanzi ospite fisso a Tf1. I talk-show italiani invece hanno la legione straniera. Una truppa internazionale di commentatori, editorialisti, analisti arruolati per decifrare intrighi e grovigli della politica italiana, per discorrere di regole del gioco, leggi elettorali, totoministri, per spiegarci il paese, quando già non lo capiscono i nostri. Chi meglio di Bernard-Henri Lévy per metterci in guardia dal “pericolo fascista” di una vittoria del centrodestra?

Un’Italia sempre ancestrale rivive nei commenti di Luttwak, di Friedman o Bill Emmott, uno che da anni prova a spiegarci il berlusconismo con bestseller a raffica, senza aver mai visto una puntata di “Drive In” o “Non è la Rai”. Come una reminiscenza televisiva dei viaggiatori del “Grand Tour”, giornalisti, politologi, saggisti stranieri sono i nuovi nobili inglesi e francesi che nei loro taccuini fissavano le immagini memorabili della nostra decadenza: in visibilio per la bellezza come per il declino politico, la corruzione, il torpore, la superstizione, lo sgretolamento dei ruderi, i panni stesi, gli sciami di ragazzini urlanti in strada, che ritrovano poi con entusiasmo ne “L’amica geniale” o nei film italiani a Venezia, Cannes, Berlino. Il racconto della politica riprende qui sperimentazioni e tradizioni del vecchio varietà, come all’epoca dell’invasione dei Rocky Roberts, Don Lurio, Heather Parisi. Ieri c’erano le Kessler, oggi Friedman e Luttwak.


Incapsulato nello sfondo di Washington, sempre alle sue spalle, con piccoli mutamenti di angolazione a seconda del collegamento e del fuso orario, Edward Luttwak è un punto fermo del nostro immaginario politico. L’aria da cattivo della Cia di un “paranoia movie” anni Settanta, tipo “I tre giorni del Condor”, Luttwak è un generatore di scenari a metà tra Deep State e oroscopo geopolitico: “Vi dico chi è davvero Giorgia Meloni”, “vi dico cosa accadrà dopo il voto”, “vi dico chi saranno gli uomini di Putin nel nuovo governo italiano”. Se Luttwak entra in scena la sera, col favore delle tenebre, Alan Friedman va fortissimo anche all’ora di pranzo, ospite più o meno fisso a “L’aria che tira”. Eccolo in “collegamento da Viareggio” alle prese col solito problema: “Da due giorni sto provando a spiegare ai miei amici perché c’è ancora Berlusconi” (un refrain antico, immortalato da Nanni Moretti in “Aprile”, dopo l’ennesima vittoria del Cav., con l’amico francese che gli domandava, “ma come, voi non avete la legge Antitrust?”).

Perché il commentatore straniero incarna il nostro senso di inferiorità, l’inadeguatezza, il compiaciuto abbandono a un provincialismo cronico. Perché, come diceva Cossiga, “italiani sono sempre gli altri”. Così, queste elezioni sono una vera pacchia. Nelle redazioni dei giornali italiani, il telefono squilla in continuazione. Il collega del Guardian vuole sapere con chi sta Conte, cosa è successo a Di Maio e se davvero ritorna il fascismo. Naturalmente questa è la notizia che eccita di più. Col fascismo immortalato nello stesso repertorio di stereotipi della pizza, del Chianti, del “Gattopardo”, della mafia. Tutti abbiamo un amico a New York, Londra, Berlino, Parigi, Dubai o anche a Chiasso molto preoccupato per noi. “Come farai ora che torna il fascismo? Ma com’è possibile?”. Si risponde in genere sbrigativamente, “eh, che vuoi farci, è l’Italia…”. Vagli a spiegare che quella di Giorgia Meloni (le origini popolari, il papà che scappa alle Canarie, la Garbatella, il bullismo, la fuga nei romanzi fantasy, l’intercalare neorealistico, l’inglese imparato con Michael Jackson, la politica, il riscatto in un mondo di maschi, forse anche la prima premier donna d’Italia) è una bellissima storia di sinistra. Solo che è di destra.
 

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