Totò e Peppino De Filippo

Totò principe dell'estate

Andrea Minuz

Ventitré film in una settimana. Ma non è l’unico: la tv generalista è un campo di battaglia di replicanti

Verso la metà degli anni Sessanta, la Rai propose a Totò di assemblare il meglio del suo repertorio teatrale per trarne dieci puntate da mandare in onda in prima serata. Un’infilata di gag, tormentoni e sketch celebri, a loro volta già ampiamente cannibalizzati nei suoi film. Insomma, un riciclaggio del riciclaggio pensato apposta per lo spettatore della tv. Oggi l’avremmo chiamata “una serie televisiva con Totò”. Dopo vari rinvii, tagli e intoppi democristiani, la Rai propose di trasmetterla nel mese di giugno del 1967 con il titolo “Tutto Totò”. Totò non farà in tempo a vederla (morirà nell’aprile dello stesso anno, senza riuscire a terminare tutte le puntate previste), ma quando seppe della decisione di collocarlo in estate andò su tutte le furie: “La televisione non può relegarmi in una stagione morta”. La Rai l’accontentò anticipando di un mese la prima puntata. Cinquant’anni dopo, quella “stagione morta” è viva grazie a lui. Con una formidabile vendetta postuma, Totò è ormai il principe assoluto e incontrastato del palinsesto estivo, il riferimento canonico di tutte le programmazioni, l’ultima spiaggia della televisione generalista. I suoi film viaggiano intorno al sette per cento di share, spalmati su tutto l’arco della giornata, dalle sette e quarantacinque del mattino alle tre di notte. Totò al caffè, Totò a pranzo, Totò all’alba, Totò after-hour. Solo la settimana scorsa ne hanno trasmessi ventitré, equamente divisi tra Rai, Mediaset premium, Sky Cinema Classics (è vero, siamo nel cinquantenario della morte ma se andiamo indietro negli anni non è molto diverso). Tra i progetti editoriali della Rai del futuro si può pensare a un rimontaggio di tutti i suoi novantasette film in un unico flusso à la “Blob” dalla durata imprecisata, intitolarlo “Totò tappabuchi” e mandarlo in onda ininterrottamente da giugno a settembre, oppure inviarlo alla Biennale di Venezia come “installazione”.

 

Gli spettatori sembrano preferire il "déjà vu"
alle prime visioni.
Forse perché è solo
in questa dimensione che ci sentiamo davvero in estate

E’ l’alchimia oscura della televisione estiva: repliche, rimontaggi e vecchi film. Le vacanze non esistono più, i canali sono centuplicati, lo schermo si è allargato, abbiamo i condizionatori di ultima generazione presi in offerta al centro commerciale e soprattutto non abbiamo più le ferie. Eppure, la televisione generalista continua a trattarci come nella golden age del welfare coi tre mesi di villeggiatura al mare. È vero anche il contrario. E cioè che dati alla mano gli spettatori sembrano preferire il “déjà vu” ai contenuti in prima visione. Forse perché è solo in questa dimensione replicante della televisione che abbiamo la garanzia di trovarci in estate o in quel che ne resta (vedi la dilatazione in prima serata di un’altra hit assoluta del palinsesto estivo come “Techetecheté”, ma ci torneremo più avanti). Non guardiamo “Totò, Peppino e la malafemmina” solo per il piacere di rivederlo. Anzi, la maggior parte delle volte non lo guardiamo affatto. Sta lì perché è ormai parte integrante del paesaggio estivo come l’anguria, gli infradito, il motorino, il portapacchi sopra l’automobile; una specie di madeleine collettiva, tanto più struggente ora che le vacanze non le facciamo più e gli unici con tre mesi di ferie rimasti sono Fazio, Vespa e Giletti. Aggiungiamoci che alcune fasce di spettatori raramente si accorgono di essere di fronte alle repliche dell’ultima stagione dell’“Arena” o di rivedersi una delle trecentododici puntate di un “Medico in famiglia”. All’inizio degli anni Duemila, all’apice della sua popolarità televisiva, Natalia Estrada confessò che quand’era in vacanza in molti le chiedevano come facesse a lavorare così tanto anche d’estate. Lei ogni volta doveva spiegare ai fan che le puntate di “Campioni di ballo” messe in onda nelle domeniche di luglio su Retequattro erano delle repliche (che comunque facevano il dieci per cento di share a puntata). Ma in fondo che importa? Veder ballare il liscio e la salsa-e-merengue è un’emozione senza tempo.

 

L'“uscita dalla dittatura degli ascolti”
e la “sperimentazione
di nuovi linguaggi” possono diventare
una minaccia reale.
Vedi Santoro

Secondo un vecchio mantra della tv, tra giugno e settembre il pubblico cala vertiginosamente, diminuiscono inserzionisti e investimenti pubblicitari e alla fine la cosa più conveniente è attingere al magazzino senza fondo di Totò. Per la Rai però non basta. E’ infatti d’estate che i due imperativi categorici del servizio pubblico, ovvero l’“uscita dalla dittatura degli ascolti” e la “sperimentazione di nuovi linguaggi” possono diventare una minaccia reale. Un cocktail micidiale che quest’anno ci ha regalato “M” di Michele Santoro. Facendo zapping in una calda serata dello scorso giugno, forse a qualcuno di voi sarà capitato di imbattersi accigliato Santoro in un faccia a faccia con Hitler, entrambi immersi nella scenografia di uno spettacolo di Pina Bausch. Non si capisce se il titolo del format venga da Fritz Lang o dal nome di battesimo di Santoro, sta di fatto che “M” è per voce dello stesso conduttore il primo esperimento di “teatro d’inchiesta”. Spieghiamolo meglio: “M” è un “tentativo resistenziale contro l’invasione dei format americani e l’affermarsi di un pensiero unico televisivo, perché noi cerchiamo di fare un prodotto come indipendenti, con i soldi che abbiamo senza pensare a risparmi e guadagni… la Rai è servizio pubblico e deve cominciare a fare quello che il mercato adesso non sta facendo”, dice Santoro. In effetti, a intervistare Hitler gettando un ponte tra nazismo e migranti, con ricostruzioni che sembravano una puntata del “Segreto” girata da Visconti, con la Gestapo con l’accento palermitano, i silenzi enigmatici, gli straniamenti brechtiani, le comparse nel pubblico vestite da Ss o da motociclista dei “Village People”, il professor Emilio Gentile che spiega il protocollo di Wansee e gli interventi di giovani santoriani iscritti al terzo anno di filosofia o al primo fuori corso al Dams, ecco a tutto questo no, il mercato non c’aveva ancora pensato. Meno male che Michele c’è. Noi spettatori impigriti dalla calura e dalla mancanza di idee del mercato c’abbiamo messo un po’ a capire che non eravamo preda di un’allucinazione ma che in effetti quel signore su Raidue che sembrava Michele Santoro era proprio Michele Santoro, e il tizio di fronte a lui era effettivamente truccato da Hitler, e Hitler veniva inchiodato da Santoro alle proprie responsabilità storiche, politiche e metafisiche cercando soprattutto di risolvere una volta per tutte l’atroce dubbio, “si è trattato di una mostruosità irripetibile oppure potrebbe tornare?” Santoro ha parlato di “un format ripetibile”. Noi passeremo l’estate chiedendoci chi sarà il prossimo “M”, “forse Matteo Messina Denaro”, dice Santoro, ma in lizza ci sono vari nomi tra cui Attila, Torquemada, Sbardella.

 

La mezza diretta Rai del concerto di Vasco Rossi, fatta presentare dall'icona di Mediaset Paolo Bonolis. Spot subliminale per Fazio

Però la vera punta di diamante dell’estate di RaiUno è stata, almeno sin qui, la mezza diretta del concerto di Vasco Rossi, “Modena Park”. Un capolavoro d’immagine del servizio pubblico. Dopo un estenuante tira e molla con Fabio Fazio, dopo aver scolpito nella pietra che è “impensabile una Rai senza Fazio”, che “senza Fazio la Rai non avrebbe retto”, che Fazio è l’“identità della Rai” e soprattutto dopo esserci accordati per oltre undici milioni di euro in quattro anni, insomma dopo tutto questo corteggiamento statale a chi far presentare il concerto di Vasco se non all’icona Mediaset Paolo Bonolis? Si dirà che a sceglierlo è stato Vasco, che lui e Bonolis sono amici. Tutto vero. Però il messaggio è quantomeno ambiguo. Un po’ come se il conduttore del Festivalbar lo scegliesse Max Pezzali o la scaletta della puntata finale di “Amici” la decidesse Saviano. Però, chissà. Forse dietro questa scelta c’è un oscuro complotto di Fazio. Nessuno infatti si era premurato di spiegare ai non addetti ai lavori che la Rai non aveva i diritti per la diretta del concerto e che dunque Bonolis era costretto a quei tristissimi siparietti in cui parlava sopra le canzoni, con micidiale effetto-tortura per il fan di Vasco e insulti sui social a seguire (nessuno però l’ha costretto a indossare una camicia che neanche il più ubriaco Red Ronnie). Insomma, con la serata “Vasco – Modena Park” è andato in scena un formidabile spot subliminale per Fabio Fazio perché costerà anche parecchio ma di fronte a Bonolis che spiegava che “Vasco è un ontologico della filosofia” capite bene che sale il sospetto che quei soldi Fazio li valga tutti.

 

Ci piace pensare sia andata così, con la Rai che per una volta ha messo in piedi una strategia degna del Mossad. Certo, resta questo piccolo problema che le repliche di Giletti fanno più ascolti delle dirette di Fazio ma non bisogna scoraggiarsi, succedeva anni fa anche con quelle del “Commissario Rex”. Il palinsesto estivo è un campo di battaglia di replicanti dove le repliche di “Ciao Darwin” battono le repliche di Laura Pausini e Paola Cortellesi, dove Renzi intervistato da Mentana fa meno ascolti di “Una voce per Padre Pio”, dove un “Techetecheté” qualsiasi, anche quello con Pupo in parata di giubbotti jeans smanicati da un Sanremo degli anni Ottanta all’altro, vola ampiamente sopra il quindici per cento di share. Poi c’è Mediaset. Il suo palinsesto estivo è un’infornata di repliche tra “Forum” e “I Cesaroni” per contrastare i Totò del mattino sulla Rai, film in prima visione per insidiare le fiction Rai della sera come “Velvet”, speciali di “Quarto grado” in attesa della sentenza d’appello per Yara, e su tutti “Temptation Island”, sconfinamento estivo di Maria De Filippi che completa così il suo intero ciclo stagionale lasciando fuori solo la serata di capodanno.

 

Le micidiali
serate-evento dedicate ai premi cinematografici e letterari. L'imbarazzo che sconfina
nella catatonia
del pubblico

“Temptation Island” è un vecchio format americano riscritto e defilippizzato da cima a fondo per il pubblico di Canale 5; era partito così-così ma da qualche anno si è affermato come programma di punta della bassa stagione di Mediaset, messo in onda il lunedì sera quando anche i più facinorosi animatori della movida estiva si prendono una pausa. Più aumentano le critiche, più si alzano gli ascolti. In Campania lo share supera il 30 per cento. Perno indispensabile di quell’estenuante catena di montaggio delle mini-celebrity che è la factory di Maria De Filippi, “Tempation Island” è contemporaneamente il crepuscolo estivo dell’ultima stagione di “Uomini e donne” e l’incubatore di quella che verrà. Ma c’è dell’altro. Lo smontaggio delle coppie, il training alle corna e agli abbandoni si possono leggere anche come il contributo defilippico alla lotta contro la cultura del femminicidio, di certo più utile di mille appelli di Boldrini e editoriali di Saviano.

 

Per gli italiani desiderosi di cultura, il palinsesto estivo sforna una pletora di serate a premi trasmesse dalla Rai. Dai “Nastri d’argento” di Taormina al “Premio Flaiano”, dal premio “Biagio Agnes” nella piazzetta di Capri al fatidico premio “Strega” che su RaiTre ha fatto il 2,3 per cento di share, ampiamente sotto i lettori dell’ultimo classificato. Micidiali serate-evento che sembrano già delle repliche, scritte infilando un buco di scaletta dietro l’altro, in un generale, diffuso imbarazzo che sconfina nella catatonia del pubblico, tra inquadrature sugli strascichi delle signore, fondali da cartolina, temporalità dilatate come in un film Leone d’oro a Venezia o in certe riprese del biliardo nei notturni Rai. Così forse si spiega il successo di trasmissioni come “Techetecheté”. La nostalgia, i divi di una volta, come eravamo. Certo. Però “Techetecheté” racconta anche della mutazione genetica in atto nella televisione. Una volta, le figure centrali erano l’autore e il regista, ma nel mondo emerso dalla rivoluzione dei reality i programmi si fanno trovando un senso narrativo a quelle migliaia di ore di girato che arrivano in redazione. Oggi insomma è l’editor la figura decisiva. Colui che dà forma alle storie, al ritmo del format, alle linee narrative dei personaggi. Colui che, a conti fatti, lavora effettivamente come un autore. Così, “Techetecheté” non è soltanto una malinconica scorribanda sulla Rai del passato ma il segno dell’indubitabile primato del lavoro di editing su quello di scrittura, nonché va da sé di una nuova età dell’oro del riciclaggio. La replica come filosofia di fondo della televisione. Serve ricordare che uno dei programmi di punta della prossima stagione sarà il “Rischiatutto” condotto da Fazio?