A Venezia fa freddo

Umberto Silva

“Niente è più bello della veneziana disgrazia”. Confessioni di uno scrittore

Ci conosciamo da molto tempo, è uno che la sa lunga sul bene e sul male, sulla politica e sull’amore. Sfinito dal caldo bestiale di questi giorni, appena entrato nel mio studio si abbandona sul lettino, ansioso di evocare alcuni ricordi di una lunga vita che peraltro gli sembra sempre più corta.

 

“Ora, caro il mio Psicoanalista, mi chiederà dove vado in vacanza e come sempre la mia risposta è pronta: a Venezia, la città più bella del mondo. Naturalmente non ci vado, per ora, per ora fantastico, la città più bella del mondo l’incontro solo d’inverno, a dicembre e a gennaio, nella notte, con un po’ di pioggia all’ora giusta, quando brillano pochissime lampade e ogni tanto passa un tipo poco raccomandabile. Che ne pensa Professore?”.

 

“La sua fantasia è sempre in agguato. Continui”.

 

“Venezia è la più bella città del Creato e sempre lo sarà, a patto che anche noi restiamo belli, vale a dire disgraziati, carichi di un desiderio senza fine. Niente è più bello della veneziana disgrazia, tra non molto in una notte senza stelle esploderà il Mose, saremo trascinati lontano, nell’arabico mare, nel suo imperscrutabile destino, così come tanti anni fa una notte a Venezia il mio frenulo si ruppe e fu poi con cura tagliato, come a Mosè e a tanti altri, e vent’anni fa s’infuocò la Fenice, una nube scura, un fiume acre che respirai folle di altre nubi lontane. Continuo, professore? Mi ascolta o pensa che non ne sono degno, che c’è roba ben più importante nel mondo? Mi ascolta o finge di ascoltarmi e pensa all’altro, quell’altro che mi piacerebbe tanto ascoltare, mi creda ”.

 

“Certo che l’ascolto, continui”.

 

“Gliel’ho già raccontato mille volte, ma lei sa, sono instancabile. Avevo diciannove anni quando con l’amata entrammo nell’hotel degli amanti e pazzi di passione al colmo della voluttà mi si ruppe il frenulo spruzzando di sangue la stanza; nella furia non ce ne eravamo accorti e solo quando le nostre mani divennero rosse, ipnotizzati le fissammo. Tutto in noi e intorno a noi era inondato di sangue, sguazzavamo in quel lago che nell’amplesso pensavamo sperma di Zeus in incessanti liquidi di Venere e ne sentivamo il profumo e il mare; finché storditi ci sedemmo sul letto, tramortiti dalla bellezza della scena assai più che dal terrore. Non sapevamo che fare, nulla volevamo fare e nulla facemmo finché la fanciulla mi strinse il pene in un asciugamano che ancora conservo. Fuggimmo nella notte, notte meravigliosa per via dell’ebraico rito che segnò la mia vita. Tante volte a Venezia ritornai, sempre di notte, sempre all’insegna di un meraviglioso disastro. Una volta, ubriaco, caddi nel Canale di Cannaregio e a stento un misterioso signore mi salvò: ero morto ed ero vivo, i topi mi avevano rosicchiato e ridevo, nemmeno andai all’ospedale, mi sentivo immortale. Ogni volta che torno a Venezia il desiderio di gettarmi è forte. Cosa ne dice, Professore?”.

 

“Molto interessante. Prosegua”.

 

“Ci provo, ci provo. Le volte che il mare e il cielo tempestano io m’inginocchio nell’acqua alta che chiamo acqua santa e mi battezza più di ogni champagne, e ci tuffo la faccia, e poi l’alzo al cielo che tutto m’inonda giù per le calli correndo disperato, le acque nere, tenebrose più di tutte le precedenti, mescolato al loro fuoco, Winon sarà vittorioso… La disturbo Professore?”.

 

“Il suo disturbo è il benvenuto. Lei m’interessa, trovo le sue parole di nobile fattura. In quel che lei dice c’è del vero e lo esprime in modo assai gradevole”.

 

“La ringrazio. Mi sento davvero bene”.

 

Se ne va, sereno. Solo un paio di volte al mese gli capita di delirare alla grande, senza peraltro nessun antipatico furore, per il resto è una persona tranquilla, scrittore di pregevoli libricini. Una volta all’anno ceniamo insieme a Venezia; entrambi andiamo pazzi per le sardee in saor.

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