LaPresse/Reuters

Morire, dormire

Umberto Silva

L’Isis e l’apice dell’infelicità, una disperazione senza fine, un Corano senza cuore

Che moriremo tutti, prima o poi, è scritto da qualche parte che non ricordo, ma sicuramente è scritto, anche se tanti non lo pensano possibile e vedono la morte come una lontananza più che un qualcosa che si avvicina, a volte lentamente, altre volte rapido e violento: a vent’anni speravo in una bella morte, con una noia che mi conferiva un certo charme. In questi giorni sono uccisi ragazze, ragazzi, bambini, padri, madri dallo sguardo colmo di speranze e amore; che tristezza la morte dell’uno e il dolore dell’altra, tristezza per noi tutti, ma non infinita: ricorderemo quei bei volti colmi di speranza e felicità, ricorderemo anche la nostra infelicità, ricorderemo le Ramblas cariche di gioia e il satanico mostro che le ha attraversate spargendo sangue; tante cose avremo visto e più volte nel tempo rammentato, e questo dice qualcosa che non sappiamo. Pensiamo di sapere tutto, ma qualcosa no: sì, certo, l’Isis, la furia omicida, la vendetta e il delirio, il fanatismo, tutto questo si crede di sapere, ma c’è dell’altro che non sappiamo e ci spaventa, e subito a correre ad armarci a nostra volta, pronti a combattere, a rassicurare che non saremo noi la prossima, ma anche a temere, che sì, possiamo esserlo. Il terrore scende su di noi, quelli che sono i luoghi più accoglienti di una grande città diventano sospetti, celano vampiri che da un momento all’altro possono manifestarsi in tutto il loro odio, i vampiri della porta accanto. Il coraggio ci aiuti, e i cimiteri.

     

Anche in questi tempi bui i cimiteri accolgono i morti e i vivi portano le bare e piangono e pregano e ricordano e non si danno pace o sì, una pace più grande di una morte. Che splendore di luce i cimiteri. Sembrano il nulla e invece sono colmi di una vita che ancor prima di vedere, noi vediamo. Quando andiamo a visitarli, i ritratti dei morti ci dicono cose tanto eterne, che noi li guardiamo e capiamo che ci stanno guardando; ci comunicano qualcosa che cerchiamo di capire ma ancora non riusciamo, eppure un giorno saremo noi, con i nostri volti, a comunicare agli altri. Ricordo i cimiteri di quando ero molto giovane, un ricordo che io non dimentico né lui dimentica me. Prima che diventassi malinconico nei miei solitari vent’anni, mia madre mi portava sempre al cimitero dei giovani coraggiosi inglesi caduti in aeree battaglie della guerra antinazista. Perché? Mamma non aveva parenti londinesi, che io sappia. Si aggirava per un’ora nel verde mattutino tra le bianche pietre e piangeva per quei quattrocento ragazzi uccisi dalla contraerea. Mi chiedevo perché mi portasse lì, quindicenne, ma non chiedevo a lei, mi sembrava un rituale da non interrogare, qualcosa che lei e io dovevamo conservare entrambi in un mistero che nessuno dei due poteva intendere, ma nel profondo ascoltavamo. Mamma non era particolarmente affezionata all’Inghilterra né tantomeno alla guerra, era piuttosto legata ai laghi manzoniani, eppure era lì che mi portava, nella Milano dei morti inglesi. La morte di quegli aviatori spronava alla sua vita, e alla sua morte, alla follia che entrambi, lei e io, come un potente velivolo ci univa nei cieli più tempestosi e ancora ci unisce.

  

Quei volti umanissimi

Chissà, in tanti anni non ho capito e mai capirò, solo qualcosa accarezzo con mani avide, ma poi tutto fugge. Non si capisce molto della nostra vita e della nostra morte, si capisce un po’ meglio l’altrui, o almeno così si crede. L’Isis si sa, o si pensa di sapere, sono quella cosa là, giusto ammazzarli come iene, visto che ci uccidono come teneri gattini. Eppure anche loro, quei ragazzi assassini, hanno talvolta volti umanissimi, che se in un primo tempo mi suscitano furore oggi già mi suscitano tristezza; sì, anche loro, le belve, quelle che sconsiderati padri e madri spesso non hanno fermato, o addirittura incitato, come ghignano certi diabolici imam. Nella tragica notte di Cambrils uno sciagurato ride e si fa sparare addosso, offre il petto, una vita che già non ha più e nemmeno mai è stata ride, ride. Ma di che ride, mi chiedo, e per sempre forse me lo chiederò. Felicità da folle, dicono molti sapienti osservatori. Ma non ci credo. Penso, piuttosto, che sia l’apice dell’infelicità, una disperazione senza fine, un Corano senza lettura, senza cuore.

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