Ai Act

Intelligenza artificiale, l'Europa regolamenta. Ma a che costo?

Giulia Casula

L'Ue accelera sulle norme ma rallenta la corsa verso l'innovazione. Le nuove regole preoccupano l'industria europea del digitale. E l'Italia parte ancora più svantaggiata

Ci sono volute 36 ore di negoziati prima che l’Unione europea, venerdì scorso, trovasse finalmente un accordo sull’AI Act, il regolamento sull’intelligenza artificiale. Dopo un lungo braccio di ferro in cui né il Parlamento, orientato verso un approccio normativo rigido, né il Consiglio, determinato a ottenere regole più flessibili, sembravano disposti a cedere, le istituzioni europee sono riuscite a raggiungere un’intesa. Bene, ma a che costo? Domanda che si è posta anche Cecilia Bonefeld-Dahl, direttrice generale di Digital Europe, la principale associazione di categoria che rappresenta le industrie di trasformazione digitale in Europa. “I nuovi requisiti richiederanno molte risorse per il rispetto da parte delle aziende, risorse che verranno spese per avvocati invece di assumere ingegneri di intelligenza artificiale”, ha dichiarato in un comunicato

Il pacchetto di regole su cui Bruxelles ha voluto mettere il cappello, infatti, lascia scoperto un grande ambito, quello delle tecnologie e degli investimenti nell’innovazione su cui all’Europa resta parecchio lavoro da fare per assicurarsi una leadership globale nell’Ia. Nella corsa a investire, l’Unione arriva in ritardo rispetto alle altre potenze leader – Stati Uniti, Cina e Giappone in primis – come rivelano i dati dell’Eurostat che mostrano una spesa in ricerca e sviluppo di appena il 2,22 per cento sul totale del prodotto interno lordo europeo

In questa cornice, già di per sé deludente, l’Italia sembra passarsela peggio. Da un confronto tra i principali paesi dell’Eurozona, emerge la posizione di svantaggio del nostro paese rispetto alla spesa industriale in ricerca e sviluppo, al numero di brevetti depositati e di applicazioni di intelligenza artificiale sviluppate. Mentre la spesa tedesca in ricerca e sviluppo si aggira attorno al 3,17 per cento del pil, le risorse che l’Italia investe in questo settore non superano l’1,45 per cento. Ancor più significativo il dato relativo al numero dei cosiddetti Campioni digitali globali, cioè quelle aziende interamente focalizzate sull’Ia: otto in Germania, sette in Francia, zero in Italia. 

In questo senso, la cornice normativa appena definita dall’Ue potrebbe rappresentare un ulteriore ostacolo per lo sviluppo dell’innovazione italiana. Il regolamento, a partire da un approccio che prevede misure differenziate a seconda del livello di rischio dei modelli sviluppati, impone per i sistemi ad alto rischio una serie di rigorosi controlli ex ante, procedure di verifica e stringenti obblighi di trasparenza. Misure che potrebbero trasformarsi in barriere per quelle start-up desiderose di investire nell’intelligenza artificiale, che risulterebbero inevitabilmente svantaggiate dagli oneri europei rispetto ai grandi player internazionali. Secondo uno studio della Commissione europea sulla valutazione d'impatto dell'AI Act, una piccola e media impresa di 50 persone dovrebbe spendere circa 300.000 euro per adeguarsi alle norme. 

Una preoccupazione condivisa anche dal direttore della Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa (Cna), Fabio Bezzi, che al Foglio dice: “Questo è un problema che ci troviamo di fronte quotidianamente: tutte le norme puntualmente vengono costruite sulle grandi imprese e a volte è molto complicato adattarle al nostro sistema produttivo nazionaleSarebbe ora di cercare di invertire la rotta e iniziare a lavorare a misure adeguate alle pmi italiane, che sono il 90 per cento del tessuto imprenditoriale del nostro paese”, ha aggiunto. Sulla questione è intervenuta anche la direttrice generale di Digital europe che, nel comunicato di cui sopra, ha dichiarato: "I nostri timori riguardano soprattutto le numerose pmi produttrici di software non abituate alla legislazione sui prodotti: per loro questo sarà un territorio inesplorato".