
(Foto Pixabay)
L'utopia hi-tech è diventata purissima realpolitik. Un caso dalla Lituania
Revolut, banche online e vecchi sospetti. Così la politica si è infiltrata nella tecnologia
Milano. L’utopia tecnologica di connettere e unire il mondo, che è ancora parte del motto di Facebook (“Bringing the world close together”; ma ricorderete anche l’ormai vetusto logo di Nokia: “Connecting People”) è andata sgretolandosi negli ultimi anni proprio quando sembrava che i tecnoutopisti fossero vicini a realizzarla. Era bello immaginare che l’hi-tech avrebbe avvicinato il mondo finché a usarlo erano pochi appassionati e gli utilizzi erano ridotti. Poi sono entrati in gioco alcuni fattori noti: l’interesse economico, la sicurezza dello stato, la politica. Finché Facebook era uno strumento per broccolare le ragazze era un conto, quando i governi si sono accorti che Facebook aveva il potenziale (mai provato, ma il potenziale c’è) di modificare il corso delle elezioni tutto è cambiato.
Il caso Huawei, che vede opposte la Cina e l’America in una contesa che intreccia geopolitica, sicurezza e il dominio su una delle tecnologie fondamentali per il futuro delle società avanzate, è l’esatto specchio di come la tecnologia sia diventata il terreno centrale degli scontri tra potenze, e di come l’utopia abbia lasciato il posto alla realpolitik. La “balcanizzazione di internet”, ugualmente, è un tema apparentemente noioso ma urgente: alcuni dei più grandi stati del mondo stanno seguendo il modello cinese e vogliono creare un loro internet protetto – tanto dall’influenza americana quanto dalla libertà d’espressione di chi lo utilizza. Questo significa: anziché unire i popoli, internet potrebbe renderli più divisi.
L’invasione della politica nella tecnologia è ben rappresentata dal piccolo caso di Revolut, una startup di fintech (tecnologia finanziaria) fondata a Londra da Nik Storonsky, un ragazzo di origini russe. Revolut è una banca online piuttosto avanzata: emette carte di debito, consente di fare tutte le transazioni immaginabili e perfino di commerciare in criptovalute. In quattro anni d’esistenza ha raggiunto una valutazione 1,7 miliardi di euro, e a dicembre (anche per preservarsi dalla Brexit) ha ottenuto una licenza bancaria europea dalla Lituania. Ma c’è un problema: i politici lituani non sono tanto contenti che la banca online di un russo processi pagamenti in Lituania. Ci sono dietro un sospetto antico, storico, e brutti precedenti, visto che i paesi baltici hanno avuto anche di recente molte difficoltà a tamponare grossi scandali di riciclaggio. C’entra anche il fatto che Storonsky ha una linguaccia, e spesso fa dichiarazioni fuori luogo.
Inoltre, una parte consistente della forza lavoro della compagnia è russa e lavora a Mosca, e il padre del fondatore lavora per Gazprom. Insomma, dopo aver concesso la licenza bancaria la Lituania ha avuto dei ripensamenti, e come raccontava ieri il Financial Times, i politici locali hanno cominciato a unire dubbi di natura finanziaria a dubbi di natura politica. La Banca centrale lituana, dicono, non ha i mezzi per sorvegliare e garantire una startup finanziaria con 3 milioni di clienti, specie quando tutti gli abitanti del paese sono 2,8 milioni. E poi è la startup di un russo! Delle tecnoutopie di un tempo è rimasto ben poco.

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