La "walking car" di Hyundai, presentata al Ces di Las Vegas. Foto LaPresse

E' finita l'età dello sharing, adesso il digitale arriva alle industrie serie

Eugenio Cau

Una nuova stirpe di aziende innovative cerca di entrare nel business tradizionale. Una classifica del Nyt porta buone notizie per l’Italia

Milano. Il New York Times ha pubblicato una lista delle 50 startup che hanno maggiori probabilità di diventare unicorni in un futuro prossimo. Unicorno, nel gergo tecnologico, è un’azienda – una startup, tendenzialmente – che raggiunge una valutazione di un miliardo di dollari. L’ultima cavalcata di unicorni è stata quella che ha avuto come protagonisti Airbnb e Uber, due app di servizi che avevano dato origine alla cosiddetta “sharing economy”: prendi un business che esiste (i taxi, i bed and breakfast) e trasforma il modo in cui questo viene fruito usando il digitale e l’ampia diffusione degli smartphone. Uber non ha cambiato i servizi di trasporto delle persone in sé: ha cambiato il modo in cui i taxi sono cercati, prenotati, la relazione con i tassisti, i metodi di pagamento. Ha lavorato agli angoli, diciamo. Questo tipo di business si è in gran parte esaurito, perché i frutti bassi della digitalizzazione sono già stati colti. Il lavoro che spetta alla prossima cavalcata di unicorni è più complesso: digitalizzare industrie storiche e radicate, in cui i meccanismi della disruption non sono affatto immediati.

   

La classifica delle 50 startup è stata stilata dal New York Times assieme con la società di analisi CB Insights, e l’osservazione più interessante è che la vera digitalizzazione – quella che riguarda non soltanto alcuni servizi particolari, ma i processi produttivi e il tessuto complessivo dell’economia – è finalmente in corso. Quasi nessuna delle startup più promettenti del momento rientra nel settore della sharing economy. Piuttosto, c’è molto fintech (sarebbe: applicazione della tecnologia al business della finanza, delle banche e dei pagamenti) e ci sono anche molti settori tradizionali e importanti. Alcune delle startup più notevoli per esempio riguardano il settore del medtech e del biotech (rispettivamente, e a grosse linee: medicina e farmacia), come Benchling, una app che sostituisce i taccuini di medici e ricercatori con uno strumento sofisticato di gestione e condivisione dei dati. L’agricoltura sta finalmente entrando nella rivoluzione digitale, e lo stesso vale per l’automotive, il retail, la manifattura.

   

Insomma, una nuova stirpe di aziende innovative cerca di entrare nel business tradizionale, dove finora la digitalizzazione è stata scarsa. Iniziative come Industria 4.0 hanno avuto successo, ma non si sono estese all’intero tessuto produttivo come invece vorrebbero fare questi futuri unicorni, che hanno dietro la forza pazzesca del venture capital americano (e in alcuni casi cinese).

   

Se davvero questa è la nuova direzione dell’innovazione, l’Italia è ben posizionata. Debole nei servizi e priva di un mercato digitale dinamico, l’industria innovativa italiana non ha mai cercato di creare la startup che scala facilmente (“scalare” significa: espandere il proprio business in maniera esponenziale) come ha fatto Uber, ma piuttosto ha cercato di applicare bene la digitalizzazione all’esistente, in maniera utile. Non è un caso che alcune delle parole chiave citate dal New York Times (biotech, agricoltura, manifatturiero) siano da sempre la forza dell’industria italiana.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.